Il Museo della Civiltà Contadina “Terra di Vigliano” di San Donato di Lecce

Il Museo della Civiltà Contadina “Terra di Vigliano” di San Donato di Lecce

di Adele Quaranta

Il Museo della Civiltà Contadina “Terra di Vigliano” ricade a San Donato di Lecce (nel cuore del Salento),  che ha circa 6.000 ab. (compresi quelli della frazione di Galugnano), dista dal capoluogo leccese quasi 10 km e risale al periodo romano ed alla nascita del casale Vigliano. Il nome deriva probabilmente da Vilius, centurione assegnatario di questo territorio, distrutto durante le invasioni barbariche e forse ricostruito in epoca normanna con l’attuale denominazione.

È stato allestito in una “casa a corte”, modulo abitativo concepito come dimora della famiglia povera contadina, rievocata con un monumento (aratro a chiodo in legno con vomere in ferro), situato nel vano d’ingresso. Raggruppando, sotto lo stesso tetto, tutti i componenti familiari e relativi beni materiali (compresi gli animali), favoriva il processo di socializzazione, l’aiuto reciproco e la mutua protezione, nonché il consolidamento dei legami parentali.

Pavimentato con lastre di pietra calcarea (chianche nel dialetto locale), inizialmente era formato da un monolocale con funzioni plurime, in seguito ampliato con la realizzazione di altri vani, per soddisfare le crescenti esigenze, a scapito, però, dello spazio scoperto antistante, dove trovavano posto, il carro agricolo, attrezzature varie e scorte destinate all’alimentazione umana (pomodori, agli, peperoncini appesi ai muri) e animale (paglia e fieno), panni da asciugare stesi sul filo, etc.

Oggi ospita, invece, una panca destinata a sedile, lu cofanu in cui venivano sistemate le lenzuola, coperte da panno bianco – chiuso a sacchetto, conteneva la cenere sulla quale si versava l’acqua calda per dare lucentezza al bucato – ed il catino dotato della tavola scanalata per lavare panni e capi di abbigliamento, al pari di quella posta nella “pila”, ricavata in un blocco monolitico di pietra calcarea.

Nello stesso spazio aperto, ricadevano, inoltre, il pozzo, o la cisterna (sono evidenti le incisioni prodotte dalle funi), adibiti alla raccolta delle acque piovane (convogliate dal terrazzo e attinte col secchio), i servizi igienici, il pozzo nero e i rocci di ferro per il recupero dei contenitori caduti nei serbatoi durante il prelievo delle risorse idriche, etc.

Questa zona era importante non solo per le donne, le quali evitavano la pubblica strada e “consumavano” il tempo libero, soprattutto in estate, dedicandosi al ricamo e tessitura, ma altresì per i bambini in quanto potevano giocare liberamente e gli adulti, i quali si ritrovavano per conversare e scambiare le proprie opinioni, rompendo, in tal modo, l’isolamento scaturito dal duro lavoro quotidiano, svolto dall’alba al tramonto (de sule an nsule).

La prima sala, dedicata all’accoglienza dei visitatori, ospita vari oggetti (alcuni risalgono ad un recente passato), tra cui il calamaio e penne sul banco di scuola dotato di piano mobile, la girella in legno (consentiva ai bambini di muovere i primi passi), la “testa” (ospitava il neonato in fasce), triclico in ferro, boccette di vetro per contenere l’inchiostro, orologi da tasca, lavagna, cestino per la colazione, oltre al fonografo a tromba, al batacchio proveniente dalla Chiesa Matrice di San Donato, etc.

In un’altra stanza, sono conservati, invece, gli strumenti tipici del lavoro rurale, fra cui zappe per dissodare la terra, forconi a tre o quattro denti onde deporre la paglia sui carri, oppure ventilare il grano sull’aia per separarlo dalla pula, falcetti e falcioni adoperati per mietere i cereali e tagliare l’erba, vomere dell’aratro a chiodo, pisara in pietra (trainata da equini o bovini), innaffiatoi in rame, piccole bilance graduate (la capacità massima era di 5 kg), la stadera (costituita da un’asta metallica su cui scorreva un peso), etc.

Il mezzo di trasporto del contadino, oltre al carro, era la bicicletta, dove venivano legati anche gli attrezzi da lavoro, il contenitore di terracotta per l’acqua protetto dal paniere, la sega (utilizzata per mondare gli alberi), mentre la scala, di solito, era portata in spalla.

Per quanto attiene il settore artigianale, gli oggetti esposti richiamano i mestieri svolti nel passato dalla popolazione sandonatese. I muratori, ad esempio, utilizzavano il saracco per tagliare a mano i blocchi di pietra, la rezza onde setacciare sabbia e materiali tufacei con cui preparavano la malta. I cavamonti, invece,  incisa la roccia, ne staccavano i massi, etc.

Il materiale lapideo era utilizzato dai contadini e pastori salentini per allestire – grazie alla disponibilità della materia prima ed alla conservazione di tecniche costruttive tradizionali, tramandate, nel corso dei secoli – anche muretti a secco (onde perimetrare aree coltivate o singole proprietà), rifugi temporanei (adibiti alla custodia degli arnesi agricoli e ricovero del bestiame) e trulli, diventati, con il tempo, più confortevoli per ospitare tutti componenti della famiglia che si trasferivano allo scopo di prestare il loro aiuto nei lavori dei campi. Di solito, erano muniti, della caratteristica scaletta esterna per l’accesso al tetto e di panche usate come sedili, mentre all’interno, di nicchie utilizzate a mo’ di dispense per la conservazione dei prodotti alimentari (fichi secchi, lupi­ni, olive, mandorle).

Il legno di olivo (molto duro) era, invece, la principale materia prima del falegname ai fini della realizzazione di prodotti di uso sia comune (mobili per la casa, infissi, suppellettili), sia agricolo (aratri a chiodo, piccole sedie, carri tirati da cavalli o buoi con le relative ruote, ecc.), grazie all’utilizzo di vari strumenti (seghe, sgorbie, asce, martelli, pialle, scalpelli, trapani a volano di forme, etc.

Altre maestranze erano impegnate nella produzione di vasellame di creta o ceramica, di oggetti in cuoio (scarpe, cinture, riparazione di selle), etc. Come quasi tutti gli artigiani, il calzolaio, in particolare, aveva di solito la bottega all’interno dell’abitazione, oppure accanto.

Il fabbro usava la forgia per disporre del fuoco, indispensabile nella lavorazione a caldo del metallo (battuto sull’incudine per ottenere la forma desiderata) e realizzazione di manufatti di varie dimensioni, tra cui ferri di cavallo, parti di carri agricoli, martelli, tenaglie, ruote, chiavi, scalpelli, etc.

Lu scuparu, con l’aiuto del punteruolo, ricavava, dai giunchi (raccolti nelle paludi, molto diffuse nel territorio salentino) intrecciati e dalle piante di saggina, oggetti di vario tipo: scope utilizzate per pulire sia caminetti e forni a legna per la cottura del pane e pietanze, sia basolati interni ed esterni alle abitazioni; rivestimento di damigiane in vetro, fiaschi e bottiglie ai fini del trasporto dell’olio e del vino, perché in grado di resistere agli urti e nasse indispensabili alla cattura dei pesci, oltre alle incannucciate su cui poggiavano le tegole (sono ancora presenti in una casa tradizionale di Galugnano), etc.

Un’attenzione particolare era riservata al lavoro domestico e al “mondo” della donna, la quale, costretta dai costumi dell’epoca, si dedicava, oltre alle faccende domestiche, anche alle attività di filatura, tessitura, ricamo dei tessuti fissati su cerchi, rammendava o realizzava merletti con il tombolo, uncinetto, etc.

Nella stanza da letto trovava posto un’ampia gamma di suppellettili, fra cui il grande e alto letto matrimoniale, formato da un materasso imbottito di paglia e foglie di granoturco (a volte, sormontato da un altro ricolmo di lana), poggiato su tavole e trespoli di legno, sotto il quale venivano riposti i recipienti di creta di uso comune e, qualche volta, ospitati persino animali.

Ai lati, due piccoli comodini, sui quali, normalmente, venivano poggiati il lume a petrolio con campana di vetro, mentre all’interno ospitavano il cantaro o l’orinale, solitamente smaltati. Di fronte, il telaio, ereditato dalla famiglia ed usato per tessere robuste tele, realizzare lenzuola, tovaglie, asciugamani e coperte (le fibre tessili grezze erano lavorate al filatoio a pedale, mentre il cotone passava dalle matasse ai cannuli per l’orditura o ai cannolicchi per la spola).

Lungo i muri, inoltre, i portabiti dove venivano sistemati i vestiti usati quotidianamente e da cerimonia, il grande baule per custodire la dote della sposa e la toletta formata da un recipiente smaltato per lavarsi, brocca e piccolo specchio. Appesi alle pareti, invece, lo scaldaletto metallico riempito di carboni e protetto dal “prete” o dalla ”monaca” per impedire che le lenzuola prendessero fuoco.

Grazie al corredo muliebre ed ai beni dello sposo, costituiti, di solito, da un appezzamento di terreno (cinto da muri a secco), da coltivare per garantire almeno la sussistenza della famiglia, i giovani potevano sposarsi e guardare con fiducia al futuro.

Il fulcro della vita domestica era rappresentato, comunque, dal camino – in particolare da quello monumentale –, non solo adibito, fino all’avvento delle cucine a gas e dell’elettricità, alla cottura dei cibi ed alla lavorazione del latte (di capra o pecora) per produrre formaggi e ricotta inserita in piccoli cesti di vimini (fische in gergo), ma altresì usato per riscaldarsi nelle fredde serate invernali. Intorno ad esso si riunivano, infatti, i componenti della famiglia, sia per trasmettere le proprie esperienze, sia per divulgare canti, credenze e tradizioni, intercalati da aneddoti e locuzioni proverbiali tipici della saggezza popolare, che spaziavano dalle norme igieniche alle giuridiche, dai riti religiosi alla complessa realtà ambientale, socio-economica e storico-culturale.

Sulle mensole fissate ai muri erano disposti oggetti in terracotta per cuocere i legumi, conservati in contenitori di creta o paglia di grano intrecciata, mentre altre scorte alimentari (olive, taralli, legumi e fichi secchi) venivano riposti nelle capase, capaseddhre e capasuni, l’olio nei pitali di creta, il vino nelle botti, etc.

Su altre tavole trovavano posto, invece, altri utensili da cucina (brocche per l’acqua in creta, piccoli recipienti adibiti alla conservazione quotidiana di olio e vino, l’attrezzo per la tostatura del caffè), in rame erano le pentole usate nella preparazione del cioccolato e caffè d’orzo, in alluminio, invece, quelle per la bollitura del latte, i mestoli, le grattugie su strutture lignee, etc.

Appesi alle pareti erano, inoltre, setacci dai reticoli più o meno fitti, arnesi sia per raccogliere la ricotta e produrre il formaggio, sia per prelevare le granaglie dai sacchi e lo scolapiatti, insieme con altri impiegati nell’impasto della farina e produzione di pasta fresca, frise e forme di pane, lavorate dapprima sulle mattrebanche e, successivamente, riposte, durante il processo di lievitazione, nel piano interno apribile del mobile.

Le stoviglie – solitamente decorate con motivi floreali, a ghirlanda e geometrici –, impiegate spesso nelle occasioni importanti, facevano bella mostra di sé nella credenza ed erano utilizzate durante il pranzo o la cena (i cibi venivano situati sulla bbanca, di solito, in un unico piatto, di ceramica o rame smaltata, collocato al centro del tavolo). In pietra, ricavato da un blocco unico, era invece il mortaio, dotato di pestello in legno per triturare il grano.

Nella parte esterna retrostante, a seconda del tenore di vita della famiglia contadina e delle crescenti esigenze legate alla valorizzazione agricola, erano collocati il carro a due ruote per trasportare le botti in legno (di acero, robinia, quercia, rovere, ecc.), dove conservare e affinare i vini, i torchi manuali per spremere l’uva, i telaietti cui erano appese, su fili di spago, le foglie di tabacco da essiccare al sole, coperti da un telo durante la notte onde proteggere dall’umidità questo tipico prodotto salentino, che, pur offrendo redditi molto bassi, impegnava numerose famiglie, in particolare donne e bambini.

In armonia con la programmazione scolastica, i temi della didattica e l’azione socio-educativa del formatore, nel Museo si svolgono – allo scopo di integrare il curricolo di base e favorire sia la crescita sia umana e culturale dei giovani alunni, sia i valori etici e la formazione di una nuova coscienza sociale, in un’ottica interdisciplinare, puntando anche sul contributo fornito da insegnanti e personale specializzato –, “I giochi di una volta” (“Se scioca cu nienti”), “Le botteghe artigiane”, “Pigiatura dell’uva”, “Visite a frantoi moderni e tradizionali” con macina di calcare movimentata manualmente, “Il Natale”, “Raccolta dell’acqua al tempo dei nonnied “Il carnevale” (Li masci), oltre alla degustazione di prodotti della dieta mediterranea.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al contempo, attraverso la divulgazione di poesie dialettali (cunti, filastrocche, etc.),  credenze e tradizioni, intercalate con aneddoti e locuzioni proverbiali tipici della saggezza popolare, si rivive un mondo magico, ancora custodito nella memoria degli anziani, purtroppo ormai dimenticato dalle nuove generazioni. In questa maniera, attraverso l’osservazione e la pratica diretta, il museo è percepito non solo come luogo da visitare ed esporre attrezzi, ma soprattutto come struttura viva e vitale da sperimentare.

La struttura si anima totalmente, infine, nel periodo natalizio, in quanto tappa finale del percorso lungo il quale si allestisce il presepe vivente da parte dei volontari dell’Associazione “Amici del Presepe” – presieduta da don Donato De Blasi, nativo del luogo –, ai quali si deve anche il restauro dell’immobile e degli attrezzi esposti, donati da privati e artigiani, nonchè la gestione delle visite.

Il Museo della Civiltà Contadina “Terra di Vigliano”, oltre a garantire un’adeguata fruizione di un’enorme quantità di oggetti – dai più antichi a quelli relativamente moderni –, offre, pertanto, anche uno spaccato della condizione socio-economica del tempo. Richiamando i mestieri svolti nel passato dalla popolazione sandonatese e dalla civiltà contadina nelle sue varie ed originali articolazioni a livello locale, subregionale e regionale, mette in evidenza, indirettamente, la dinamica delle forme di utilizzazione del suolo, il duro lavoro compiuto dai nostri antenati, il religioso rispetto del territorio (oggi sconvolto e saccheggiato dall’invadente processo antropico).

Se da un alto, si configura come deposito di testimonianze, attività ed azioni millenarie (scaturite da un’antica e complessa rete di relazioni), condannate a scomparire persino dalla memoria collettiva e sempre più sconosciute ai giovani a causa dell’invadente e preoccupante processo di globalizzazione prodotto dai mass media, dall’altro, consente la riappropriazione delle tradizioni da parte della comunità locale,  prefigurandosi come strumento fondamentale nella costruzione, utilizzo e salvaguardia delle risorse territoriali.

La tutela delle specificità – legate sia al Salento in generale che alla sfera della società rurale locale, proposta da questa struttura, con l’eccezionale carica di vitalità e originalità – esprime non solo la lotta contro la preoccupante omologazione, ma altresì il fervore evidenziato dalle comunità nei confronti del recupero conservativo dei “beni minori”, condannati all’oblio totale senza il significativo contributo fornito dai valori simbolici intrinseci e dalla la forza evocatrice espressa dagli ambienti e attrezzi esposti.

CONCLUSIONI. Ancorato al territorio ed alla conservazione dell’originaria tipologia, il Museo della Civiltà Contadina “Terra Di Vigliano” di San Donato di Lecce fonde – attraverso le intime e realistiche radici del passato fra storia, poesia e cultura, intrecciate in un percorso emozionale e formativo – consente, alle nuove generazioni, di rivivere il mondo custodito nei ricordi degli anziani. Sorto grazie ad un gruppo di volontari locali, non solo offre ai giovani ulteriori opportunità conoscitive in merito alla scoperta sia degli antichi mestieri che degli ambienti tipici della società contadina, ma si trasforma, altresì, in un importante strumento ai fini della progettazione del futuro, puntando sui rapporti instaurati con studiosi, istituti di ricerca, scuole di ogni ordine e grado e sulla valorizzazione delle radici, rispetto dell’ambiente e nuovi modelli di sviluppo, rivolti alla realizzazione di un marketing generatore di ricchezza e benessere derivato dalla conservazione dei beni culturali e territoriali, in grado di supportare un futuro più inclusivo e costruttivo.

 

Il museo è come un libro aperto (che si arricchirà di altri capitoli) per i nostri figli che vanno a scuola col computer, sanno usare la penna ma non conoscono più l’aratro. Il vomere entra nel terreno e lo sconvolge per portarlo alla luce del sole. La penna con la sua punta entra nella coscienza alla ricerca della verità” (don Donato De Blasi).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Adele Quaranta

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.