La Nato costretta a cambiare narrativa
Il generale Marco Bertolini spiega all’AGI che “una conquista del Donbass potrebbe rappresentare il raggiungimento di un punto di non ritorno, la vittoria sul campo definitiva dei russi” e che quindi si potrebbe aprire un tavolo per i negoziati
Mosca è sempre più vicina a impadronirsi dell’intero territorio del Donbass, un traguardo che segnerebbe il raggiungimento dell’obiettivo dichiarato dell’intervento in Ucraina e potrebbe condurre a una riapertura del tavolo delle trattative.
La prospettiva di una imminente vittoria russa sul campo ha costretto l’Occidente a cambiare narrazione dopo aver insistito per settimane su un presunto sfacelo delle forze del Cremlino e aver addirittura spinto Kiev a credere nella possibilità di una vittoria militare.
Un bagno di realtà dopo il quale dovrà maturare la consapevolezza che la Russia non potrà mai essere spinta a rinunciare a determinati territori non per chissà quali complesse ragioni strategiche ma per semplicissime ragioni geografiche. È l’analisi di Marco Bertolini, ex comandante del Comando Operativo Interforze e della Folgore.
Negli ultimi giorni i russi hanno segnato significativi progressi nell’avanzata in Donbass, in particolare con la conquista del fondamentale crocevia di Lyman. Quali potrebbero essere i possibili sviluppi delle operazioni sul campo nei prossimi giorni?
“Si sta stringendo una tenaglia che dovrebbe portare all’accerchiamento delle forze ucraine che si stanno confrontando sul fronte Est. Una conquista del Donbass potrebbe rappresentare il raggiungimento di un punto di non ritorno, la vittoria sul campo definitiva dei russi. Ormai, oltre che dalle ammissioni di Zelensky stesso, è quello che traspare anche dalle ammissioni in campo occidentale, soprattutto statunitense. Il New York Times, ad esempio, ha riconosciuto che la situazione degli ucraini è molto pesante. Penso che, auspicabilmente, si sia giunti al punto nel quale i russi potrebbero aprire un tavole per i negoziati. I cambiamenti sul terreno potrebbero essere prodromici a un cambiamento di approccio con i due interlocutori, Zelensky e Putin, che decidono di cominciare a discutere”.
Queste ammissioni segnano un deciso mutamento nella narrazione. Fino a qualche giorno fa da Washington e Londra ci veniva detto che l’avanzata russa era in stallo, che le forze di Mosca stavano subendo perdite pesantissime e che addirittura l’Ucraina fosse nelle condizioni di vincere…
“Sta cambiando la narrativa in ambito occidentale, dopo che, soprattutto da parte americana e inglese, c’era stata la tendenza a dire che i russi non ce la facessero più e non fossero capaci. Non sappiamo quante perdite abbiano subito gli ucraini. Una ricerca dell’Onu parla di 5 mila civili uccisi ma non si parla mai dei militari ucraini morti. L’altro giorno Zelensky aveva parlato di 50-100 caduti al giorno, ai quali vanno aggiunti i feriti e i disertori, un fenomeno quest’ultimo che sta assumendo una dimensione preoccupante nel Donbass. Johnson aveva parlato di vittoria, termine che non prevede la trattativa ma la resa dell’avversario, aveva portato l’esempio di Churchill e aveva spinto Zelensky a uno scontro senza condizioni, dicendogli che era il momento della gloria. La narrativa dei Paesi che avevano spinto di più per uno scontro senza se e senza ma sta cambiando. Non sono più consentiti voli pindarici, l’Ucraina non ha né la forza né la possibilità di riconquistare i territori perduti senza un intervento diretto della Nato che porterebbe a qualcosa di catastrofico, a una terza guerra mondiale. Continuare a mandare armi non aiuterebbe una controffensiva finale che ripristini lo status quo ma servirebbe a mantenere accesa una situazione di conflittualità costante nel tempo tra un’Ucraina occupata dai russi e un’altra sotto il controllo degli ucraini, una conflittualità cronica che sarebbe una maledizione, come è già evidente dai problemi per le esportazioni di grano”.
Mosca si fermerà al Donbass? Il mese scorso avevano fatto molto rumore le dichiarazioni del generale Minnekayev, vicecomandante del distretto militare russo centrale, secondo il quale l’obiettivo della Russia era aprirsi un corridoio fino alla Transnistria, il che implicherebbe prendere Odessa e privare l’Ucraina di ogni accesso al mare…
“Credo che Odessa non fosse nei piani iniziali del Cremlino. Lo deduco dalle forze messe in campo. Odessa avrebbe potuto rappresentare una merce di scambio sul tavolo del negoziato: i russi avrebbero rinunciato a Odessa per lasciare a Kiev uno sbocco al mare a patto che venisse accettato il fatto compiuto del Mare d’Azov e di Mariupol. Non ci sono mai state grosse minacce per Odessa, le navi si sono limitate a pendolare davanti al porto, non abbastanza per paventare un’operazione di sbarco che sarebbe stata molto onerosa. A meno che non capitoli per conto proprio. A Odessa la presenza russa non è di poco conto, c’è sempre stata tensione tra la popolazione russa e la popolazione ucraina, come dimostra il famoso incendio nella casa dei sindacati”.
Zelensky è tornato di recente ad affermare che il conflitto con Mosca può avere solo una soluzione diplomatica.
Si tratta di un deciso cambio di registro rispetto all’intransigenza mostrata da Kiev dopo il vertice di Istanbul, il momento in cui un accordo era sembrato più a portata di mano. Che ruolo hanno avuto Washington e Londra nell’allontanarlo dal tavolo negoziale?
“Zelensky è stato evidentemente spinto a tenere duro da qualche prospettiva, probabilmente basata su informazioni sbagliate, come quelle sulla Russia che avrebbe dovuto smettere dopo un mese per un default. Oltre a queste informazioni poco credibili, Zelensky ha goduto di un palcoscenico mondiale eccezionale e di fronte a una dimostrazione di solidarietà del genere ha creduto fosse possibile che con le sue sole forze e le armi occidentali si potesse ribaltare situazione. Non si è reso conto che per i russi perdere significherebbe rinunciare alla Crimea e al Donbass. E la Russia non può rinunciare al Mar Nero, che durante la Guerra Fredda, a parte la Turchia, era tutto sotto il controllo del Patto di Varsavia, perché Romania, Bulgaria e Georgia erano controllate da Mosca. Per questo ci sono state la guerra in Georgia, la secessione dell’Abkhazia. Se la Georgia e l’Ucraina passassero alla Nato, la Russia sarebbe murata fuori dal Mediterraneo e dal’Europa e questo la Russia non può accettarlo. Lo stesso problema ora si riproporrà nel Baltico, la cui sponda Sud prima apparteneva tutta al Patto di Varsavia e ora appartiene tutta alla Nato, salvo Kaliningrad e San Pietroburgo. Svezia e Finlandia, da nazioni neutrali, avevano finora consentito alla flotta russa una certa libertà di movimento nel Baltico. Il loro ingresso nella Nato creerebbe la stessa situazione nel Mar Nero e questo darebbe la stura a delle contromosse, questo a prescindere da chi ci sia al vertice in Russia. Di solito si tende a personalizzare e a riferire tutto a Putin ma senza di lui la geografia non cambierebbe. La Russia è un Paese che ha ambizioni e non può essere sconfitto militarmente, a meno di un intervento americano che porterebbe a una guerra con possibili escalation nucleari. La Russia non è una repubblichetta euroasiatica che ci si può illudere di far tornare indietro con quattro schiaffoni. Non è questione di essere esperti di geostrategia o di storia militare, non rendersi conto di queste problematiche significa ignorare la geografia”.
AGI