Parte la corsa al Quirinale.Gli scenari plausibili e non
di Luca Tentoni
Il dibattito sull’elezione del Capo dello Stato è iniziato da alcune settimane, praticamente quando alla riunione dei Grandi Elettori mancavano ancora tre mesi. Si sono fatte molte ipotesi: troppe, bruciandone alcune e lanciandone altre che hanno suscitato speranze malriposte o infondate. Persino Berlusconi, ottantacinquenne, si augura (vanamente, si auspica) di essere eletto con i voti del destracentro e magari di un Renzi al quale, dal Colle, potrebbe essere tentato di “donare” Forza Italia (forse è fantapolitica, forse no). Nei giorni scorsi abbiamo assistito alla disputa sul “semipresidenzialismo” innescata dalle frasi di Giorgetti inserite nell’ennesimo libro natalizio di Vespa. Sebbene il semipresidenzialismo non sia un’istituzione “di fatto” ma abbia le sue regole e la sua interpretazione più pura e importante in Francia, si crede che la semplice azione del Quirinale – sia pure autorevole, nel caso dei governi ispirati dal Colle come l’Esecutivo Draghi – si possa in qualche modo appena solo accostare a quella d’Oltralpe. Un’eresia, dal punto di vista dottrinale.
Vero è, invece, che i poteri del nostro Capo dello Stato sono “a fisarmonica” e che dunque si possono espandere ma mai fino a fare del Presidente del Consiglio il proprio Primo ministro, una sorta di valletto del Presidente della Repubblica. Anche perché, com’è noto ma come si ricorda poco spesso, il nostro è e resta – nonostante tutto e tutti – un regime parlamentare, con i risvolti e le dinamiche che gli sono tipiche. Se eletto, Draghi cambierebbe veste, ma non per assumere quella di Mitterand o di Macron, bensì per prendere il posto di Mattarella. Avrebbe bisogno di concordare con le forze politiche il nome di un Presidente del Consiglio autorevole (Franco? Cartabia?) e in grado di tenere coesa l’attuale grande coalizione di governo.
Si dice che, se Draghi lasciasse Palazzo Chigi per il Colle, nessuno potrebbe sostituirlo con altrettanta autorevolezza: in linea di principio, può essere un’affermazione condivisibile, ma la realtà è più complessa. Dopo il voto per il Quirinale, le forze politiche entreranno nell’ultimo anno di legislatura e cominceranno ad agitarsi come se la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento fosse in pieno svolgimento. Chiunque sarà a Palazzo Chigi ne pagherà il prezzo, in termini di veti e immobilismo: anche Draghi ne potrebbe restare vittima. Dunque, fa sorridere l’irricevibile proposta di rieleggere Mattarella per conservare l’asse con Draghi che solo all’estero (dove, di solito, conoscono poco le dinamiche italiane) può essere seriamente auspicata. In primo luogo, perché abbiamo già avuto, fra il 2013 e il 2015, l’anomalia di un sistema dei partiti totalmente incapace di eleggere un Presidente, tanto da chiedere all’uscente di restare sul Colle. Una rondine non fa primavera, due sì. Dal messaggio di Segni in poi, invece, i presidenti della Repubblica hanno sempre deplorato l’ipotesi di un secondo mandato (anche se alcuni, più o meno in segreto, hanno accarezzato l’idea di essere “richiamati in servizio”). I partiti italiani non hanno un altro Mattarella da eleggere al Quirinale, se Draghi deve restare a Palazzo Chigi? La nostra classe dirigente è così scarsa da non avere figure di livello? In questo caso l’affluenza al 50% fatta registrare alle comunali è un segno positivo, di fiducia, perché se i partiti sono tanto malridotti vuol dire che non vale la pena di votarli.
In secondo luogo, c’è l’interpretazione di certi apprendisti Machiavelli che vorrebbero lasciare Mattarella al Quirinale (contro l’espressa e reiterata volontà dell’interessato) perché diversamente Draghi non avrebbe abbastanza copertura, o perché se quest’ultimo fosse eletto Capo dello Stato non riuscirebbe a farsi sostituire degnamente a Palazzo Chigi, come si accennava in precedenza. Anche qui, si può affermare che se siamo legati in questo modo a due persone vuol dire che al situazione non è grave, è disastrosa. In terzo luogo, c’è chi vuole confermare Mattarella per lasciare Draghi a Palazzo Chigi fino al 2023 e magari fino al 2026: con quali voti, se il destracentro vincerà le politiche del 2023? Ci si illude che, una volta “conquistato il potere” (un’espressione che a destra piace molto) Salvini e Meloni ne cedano una fetta per insediare il governo di un europeista che ha sull’Ue, sull’euro e su numerosi altri temi idee e posizioni molto lontane dalle loro? Sarebbero disposti a farsi commissariare per tre anni in nome del Pnrr? È semplicemente fantasioso, tutto questo.
Infine, c’è chi vuole rieleggere Mattarella come garanzia per la prosecuzione della legislatura fino al 2023. Questa è forse l’ipotesi più plausibile, ma resta il macigno della campagna elettorale permanente che finirebbe per schiacciare il presidente del Consiglio Draghi, sempre che la Lega, in estate, non si sfili; considerando poi che il M5s non è (di fatto) controllato da Conte e che in Parlamento i franchi tiratori non mancano mai, come si può essere ottimisti per il futuro dell’attuale Esecutivo? Se l’incarico di Mattarella sarà “a tempo” (non lo dice la Costituzione, ma l’interessato può decidere di dimettersi dopo le elezioni politiche del 2023) è possibile che fra poco più di 18 mesi ci troveremo Berlusconi al Quirinale e Salvini o Meloni a Palazzo Chigi, con buona pace del Pnrr, dell’Europa e anche dei nostri poveri titoli pubblici. Per avere ancora Mattarella e Draghi, insomma, li perderemmo presto entrambi.
Meglio, molto meglio facilitare l’elezione ampia di Draghi al Quirinale, con un concorso di quasi tutte le forze politiche (al quarto scrutinio, per evitare che i franchi tiratori lo colpiscano) e chiarire fin da ora ai tanti peones in cerca di un altro anno da parlamentari che si voterà nel 2023. In quanto al nuovo presidente del Consiglio, starà alla bravura di Draghi individuare una personalità in grado di tenere testa ai partiti (per quanto possibile, s’intende). Resta, infine, il dubbio che non si voglia eleggere Draghi perché i peones hanno percepito la debolezza di Conte, la tentazione di Letta e del leader del M5s di andare al voto nel 2022 per avere gruppi parlamentari più controllabili e la voglia di Salvini di interrompere la legislatura prima che il vantaggio di FdI sulla Lega diventi incolmabile. Forse la soluzione al problema potrebbe essere rappresentata dalle dimissioni di Draghi subito dopo l’approvazione della legge di stabilità, lasciando il posto ad un successore che goda della sua fiducia e di quella di Mattarella (che lo nominerebbe) per poi procedere, dopo la crisi lampo (non più di tre o quattro giorni in tutto, magari con un governo fotocopia) a votare l’ex presidente della Bce nuovo Capo dello Stato. La nascita anticipata del nuovo governo sarebbe la polizza per il prosieguo della legislatura. Alla fine, però, la sensazione è che i giochi per il Quirinale siano ancora aperti, soprattutto perché sicuramente Renzi, che desidera recitare sempre un ruolo di primo piano, anche stavolta cercherà di metterci del suo.