Il giorno in cui si spense la voce più inconfondibile del secolo

Il giorno in cui si spense la voce più inconfondibile del secolo

“Sono morta centinaia di volte” cantava Amy Winehouse in “Back to Black”.

E non si poteva non crederle, perché la sua voce – il suo marchio di fabbrica – era unica al mondo, a suo modo un paradosso sonoro: profonda, vellutata e al tempo stesso abrasiva come una ferita che non guarisce mai, contemporaneamente inimitabile eppure imitatissima ai quattro angoli del mondo.

Amy “era” una ferita ambulante, e pare quasi uno scherzo del destino che sia andata ad unirsi – esattamente oggi dieci anni fa – al famigerato “Club 27”, ossia all’infinita schiera di rockstar luminose come stelle polari che hanno lasciato questo mondo a soli 27 anni: Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, Brian Jones, Kurt Cobain. Ed Amy.

La trovarono morta il 23 luglio 2011 nella sua casa di Londra, nella sua amata Camden, nel suo letto, uccisa da una quantità di alcol che avrebbe stroncato anche un bufalo.

Ma l’eternità l’aveva conquistata, forse controvoglia, già da molto tempo, sin da quando prese in mano la sua prima chitarra, a 13 anni, cominciando da subito a scrivere i suoi pezzi, sin da quando la cacciarono di scuola a causa del suo riottoso rapporto con la disciplina.

Solo due album fatti di una maliosa mistura di soul, jazz e pop, un’immagine sulfurea e tenera al tempo stesso fatta di dannazione, capelli corvini come il mascara che incorniciava i suoi occhi: ma Amy Winehouse è rimasta impressa nella mente e nel cuore ben oltre il breve tempo del suo passaggio sulla Terra.

A Camden Town tutto gira ancora intorno al suo mito, con la sua statua di bronzo allo Stables Market, a due passi dai negozietti di musica, dai pub e dai tavoli da biliardo che erano il suo mondo. “Direi che il jazz è la mia lingua”, ripeteva spesso Amy.

Che a tutt’oggi è considerata una delle più significative cantanti britanniche di sempre, un incrocio senza tempo tra Ella Fitzgerald, Nina Simone e le dive anni sessanta della Motown, ma anche stella polare per chi verrà dopo, come Adele o Celeste che dir si voglia.

Cresciuta a pane e jazz (alcuni suoi zii erano musicisti professionisti), curiosamente sempre fedele alle sue radici ebraiche, in anni in cui andavano per la maggiore le “girl-groups” ed il più plastico “casting-pop”, a soli vent’anni pubblicò il suo album d’esordio, il folgorante “Frank”, tutto scritto da lei, che fu un successo notevole e per lei totalmente imprevisto: “Non credo che sarò mai famosa”, ebbe a dire la timida Amy in una delle sue prime interviste. “Credo che non saprei maneggiarlo, il successo, probabilmente sprofonderei nella pazzia”.

Fu quasi una profezia: proprio con “Black to Black”, pubblicato nel 2006 (a due anni da “Frank”), divenne una star mondiale, grazie alla geniale miscela di Motown, Doo-Wop e soul prodotti con spirito contemporaneo: in dote arrivarono cinque Grammy Awards e centinaia di altri premi, attirando al tempo stesso le copertine di testate internazionali come Rolling Stone e Variety.

Il problema fu che non poteva più lasciare la sua casa senza essere travolta dalla tempesta dei flash dei paparazzi, presenti anche quando fu portata fuori la sua bara. Lei l’aveva detto, pare, ai suoi amici: avrebbe restituito tutti i premi e tutta la fama solo per poter tornare in santa pace in uno dei suoi pub. “Sono solo una musicista sincera”, la sentiamo dire nel documentario “Amy Winehouse: Black to Black”, appena uscito per il decennale della morte. “Scrivo canzoni perché sono malata nella testa”, ripeteva la ragazza, che aveva assunto i suoi primi anti-depressivi già durante l’infanzia. “Devo scrivere tutto e cantare per sentirmi meglio”.

In effetti: “Black To Black” era un viaggio sonoro nel rapporto distruttivo con Blake Fielder-Civil, che fu suo marito dal 2007 al 2009, come appare lampante da canzoni come “Love Is a Losing Game” e “Wake Up Alone”.

Un apparente scherzo – in realtà una scomoda verità – era la canzone “Rehab”, singolo di immenso successo nato durante una passeggiata con il produttore Mark Ronson attraverso le vie di New York City: aveva bisogno davvero di curarsi dalla dipendenza da alcol.

Non ci riuscì mai. Fatto sta che “Black To Black” è stato per un certo periodo l’album in assoluto più venduto del 21esimo secolo, oltre a conquistare il disco di platino in decine di Paesi in tutto il mondo, dall’Australia alla Finlandia.

I suoi problemi con l’alcol non l’hanno l’abbandonata mai: riuscì, così pare, a disfarsi da crack e dall’eroina alle quale l’introdusse il marito (è lui stesso ad ammetterlo), ma il consumo di alcolici non fece che aumentare. Amy sempre più spesso saliva sul palco ubriaca, oppure appariva assente, qualche volta dimenticava i testi.

La sua ultima tournee fu un disastro: a Belgrado inciampò sul palco, a tratti si rifiutò di cantare, fu subissata di grida non esattamente elogiativi del pubblico.

Nei giorni successivi i media si scatenarono contro di lei. Il tour fu annullato. Appena un mese dopo stupì tutti con una stupenda voce in una breve apparizione a un concerto di Dionne Bromfield, tanto da meritarsi una potente standing ovation. Eppure fu un’illusione: tre giorni dopo Amy Winehouse fu trovata cadavere dal suo bodyguard. “Se morissi domani, sarei una ragazza felice”, sussurrava Amy. Il jazz ed il soul, la musica dell’anima, non erano bastati a salvarla. AGI

Redazione

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