“Arte come Filosofia 8”

“Arte come Filosofia 8”
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“Oliviero Toscani: Professione Fotografo” in mostra dal 23 marzo al 30 settembre 2024, presso il Museo Civico Archeologico Petrone di Vieste (FG).

Produzione di Giuseppe Benvenuto. Cura di Nicolas Ballario e Susanna Crisanti, in collaborazione con il Polo Culturale.

Di Andrea Cramarossa.

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Fig. 1 Copertina del settimanale Oggi dopo l’invasione della Russia in Ucraina. 2022. Foto di A. Cramarossa.

Cento sono le fotografie di Oliviero Toscani in mostra presso il Museo Civico e Archeologico Petrone di Vieste, in provincia di Foggia. La lunga carriera del grande fotografo qui consegnata alle mura di un palazzo che contiene reperti archeologici di incommensurabile bellezza e valore storico, culturale, artistico. In un certo senso, entrare nel mondo fotografico di Toscani seguendo i solchi del passato. Le foto le abbiamo tutti ben segnate nella nostra mente, incise nella memoria, come a costituire una sorta di bagaglio storico moderno, vicinissimo al nostro tempo. O lontanissimo dal nostro tempo?

Non posso non sviluppare una serie di considerazioni e riflessioni senza seguire il fluire del tempo, captarne il senso, la profondità. Si parte, dunque, dalle fotografie in b/n scattate da Toscani in gioventù, quando era studente alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, il cui preside è Johannes Itten, maestro del colore della Bauhaus, e corpo docente di tutto rispetto. È in quella scuola che Toscani apprende la teoria del colore, la tecnica e la composizione. Partecipa ad alcuni concorsi indetti dalla Pan Am (lo vincerà e si recherà in America, a New York), da una industria di alluminio (Aluminium in unserer Zeit – L’alluminio ai nostri tempi) e, ancora, realizzerà un reportage sul rapporto clero-mafia su richiesta de “L’Europeo”.

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Fig. 2 Foto di Oliviero Toscani per il reportage della rivista “L’Europeo” (1962). Foto di A. Cramarossa.

Ripercorrere tutto il sentiero, passo dopo passo, pedissequamente, tracciato dal Toscani, aprendo la strada ad una nuova visione sull’arte della fotografia e sul come vedere la realtà, come sottrarla, cioè, alla sua stessa riottosa cadenza di millimetrica e incessante morbosità esistenziale, sarebbe impresa improba, qui, in poche righe. Pertanto vorrei soffermarmi ancora sul senso del tempo assolutizzato negli scatti così folgoranti e in grado di mettere a nudo ogni cosa, ogni volto, ogni segmento di respiro intrappolato e, forse, fatto scomparire immediatamente dall’oceano di sensazioni che siamo abituati a vivere quando ci confrontiamo con qualcosa in grado di destabilizzarci. Così, passiamo dai primi piani di parti ci corpi e volti di vari colori e animali e sguardi di animali e sintassi disperate di non-corpi di pesci congelati come impalpabili androgini sospesi in un cielo latteo e intrecciati su altri corpi violentemente ininterrotti in una posa di danza che è il sospiro lieve di un grembo materno o di un angelo e un diavolo abbracciati su di un mare di preservativi e il grido represso della malattia che sia anoressia o che sia osteoporosi o che sia celebrazione di vetustà e infinita misericordia di prati cromati e spunti di catrame in canti disperati di una distorta umanità. E, poi, ancora, vedo il lieve passaggio dai segni dell’HIV al furto di Cattelan e l’epico del neonato guerriero e la nascita che deflagra in tutta la sua spiazzante verità ancora una volta gridata nel frastuono della mente affogata tutta in una volta in tutta questa umanità. Perché questo è il tempo tutto che Toscani ritrae, questa umanità calatasi nella realtà, soggetti reali ingigantiti catturati in una forma “onirico-pornografica” che allontana lo sguardo da qualsiasi possibile volgarità: è la purezza del divino a farsi segno, ad essere ritratta.

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Fig. 3 Foto di Oliviero Toscani per un servizio di “Elle” sul rapporto dei giovani con il sesso (2015). Foto di A. Cramarossa.

Questo è il lavoro di cesello del Toscani alla ricerca del segno divino nell’umanità, nella realtà. A me così appare questa moltitudine di pelli ingigantite, occhi, gambe, braccia, corpi tutti scolpiti e davvero in posa per una più celeste visione del nostro essere calati nel mondo, per rendere il mondo più mondo, più tangibile, più vero, per guardarlo con ancor più attenzione, senza divagazioni, senza distrazioni, senza annebbiamenti visivi, senza falsità: la finzione della posa aumenta il senso in-visibile dell’invisibile, toccando in noi le corde tese del tempo e quelle imperscrutabili del Tempo, lasciandoci increduli di fronte alla medesima funzione del divino nei reperti archeologici trattenuti nelle teche del museo. Una archeologia irreale, dunque, questa sovrapposizione di umanità, una archeologia delle polveri d’oro, una mitologia narrata talvolta con elegiache sembianze e talvolta con epiche riscoperte di bisogno d’appartenenza.

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4 Ritratto di Michele Petrone. Foto dal pannello espositivo di A. Cramarossa.

Esponente della borghesia più illuminata, Michele Petrone (1867 – 1935), a cui è intitolato il museo di Vieste, è stato medico e ufficiale sanitario e grande appassionato di archeologia. È anche al Petrone che si deve la nascita di diversi musei civici, da Bovino a Ascoli Satriano, fino a Vieste, per l’appunto. Egli stesso lasciò alla città di Vieste la raccolta di reperti archeologici che è possibile vedere nelle stanze del museo ed è grazie a lui che è caduta l’attenzione sulle epigrafi con testo in greco antico ritrovate a Vieste nel XIX secolo, le cosiddette “iscrizioni messapiche”.

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Fig. 5 Epigrafe con iscrizione votiva in idioma greco-messapico dedicata alla dea Demetra.

I reperti ci parlano di una vita passata, ormai trascorsa, lontana, non più attuale, eppure, con la differenza del materiale utilizzato, possiamo passare da un’epoca all’altra, ma anche con la differenza dei soggetti ritratti e con la volontà immutata di forgiare l’oggetto per dargli una nuova natura, esasperando l’esperienza estetica in un contesto prevalentemente artistico. Imbrigliamo i pensieri tra le didascalie riprodotte per nutrire la nostra conoscenza, didascalie indispensabili per la nostra soddisfazione cognitiva ma – mi chiedo – come sarebbe, dunque, il nostro sentire senza quella possibilità che si ostina a suggerirci un altro tempo, un altro uso delle cose e, quindi, un altro modo di vivere quelle stesse cose? Come sentirebbe (sentirebbe?) il nostro corpo, ovvero, sentiremmo e guarderemmo le opere esposte con una memoria del corpo che è stato in quelle case, in quelle caverne, in quelle strade greche o romane? In che misura il nostro corpo si potrebbe riconoscere nella memoria conservata dall’impronta degli oggetti toccati dai nostri avi? Non c’è, forse, risposta a queste domande ma l’aura del luogo, l’esistenza del tratto divino nel solco della modernità, il dialogo del tempo col Tempo, il grande racchiuso nel piccolo e viceversa, ci consente ancora e per sempre, di rimediare alla nostra esistenza se siamo in grado di sentirne il flusso malgrado noi. Ed è questo ciò che vedo nelle opere antiche e nelle opere fotografiche di Toscani, in questo loro dialogo temporalmente grandioso, una gioia incontenibile che resta nel tocco delle arti e che resterà anche dopo che la mostra sarà dismessa tramite quel misterioso meccanismo della reciprocità, ciascun segno assorbirà le trame dell’altro, in un desiderio mai placato di vereconda contiguità tra le arti.

P.S.: Ma potrebbe mai servire a qualcosa questo dialogo a-temporale fra le arti? Questo miscuglio, mi chiedo, di opere che si rivelano su più piani innescando un linguaggio nuovo, inconsueto per i suoni di intrigante meticciato che esse emanano nel loro scontrarsi? Non saprei trovare una risposta se non nella presenza del culto di Afrodite nella Uria garganica, culto attestato nel mondo antico, in realtà, solo sull’Acropoli di Atene ma molti sono i segnali che ci permettono di ipotizzare un legame forte tra Atene e Vieste, per via delle rotte commerciali e marittime. Ma non di una Afrodite o Venere qualunque stiamo parlando, bensì della Venere Sosandra, ossia la Salvatrice, divinità che potesse proteggere marinai e pescatori. I resti del culto e la grotta-santuario della Venere Sosandra, sono stati rinvenuti sull’isolotto di Sant’Eufemia che ospita il faro di Vieste.

Salvati siamo stati anche noi, questa volta, perché approdati – e perché sempre approdiamo – su lidi sconosciuti, per farci mistero noi stessi per queste sculture, per questi crateri, lucerne, unguentari, anfore: mai lasciati soli, essi oggetti, ce ne prendiamo cura, sovrapponendo la loro anima allo sguardo curioso delle foto di Oliviero Toscani, come in un’antica pratica magica, se noi che guardiamo ci pensiamo guardati, anche noi saremo “salvati” dalla Bellezza, se sappiamo guardarla.

Lasciarsi toccare dal tempo per farsi Tempo, in un istante infinito beato dal flusso dorato della vita.

Andrea Cramarossa

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Fig. 6 Oscillum. Età romana e tardoantica. Foto di A. Cramarossa.

“Oliviero Toscani: Professione Fotografo” in mostra dal 23 marzo al 30 settembre 2024, presso il Museo Civico Archeologico Petrone di Vieste (FG).

Produzione di Giuseppe Benvenuto. Cura di Nicolas Ballario e Susanna Crisanti, in collaborazione con il Polo Culturale.

 Mostra vista il 1° aprile 2024.

 Testi di riferimento:

 “La struttura assente”, Umberto Eco, Ed. Bompiani.

  • “Teoria Estetica”, T. W. Adorno, Ed. Einaudi.

Daniela Piesco

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