E’ ora, preghiamo fratello

E’ ora, preghiamo fratello

Racconto 11 p.

di Yari Lepre Marrani

Appena il carro partì lentamente, trainato a fatica da quelle due vacche pigre oltreché grasse e ben cornute il mio cervello – se era ancora mio… o del boia – a poco a poco assopito all’infausto destino ebbe un ultimo sussulto di residua energia, d’isterismo che si esaurì in pochi secondi: dopo pochi metri dalla partenza lanciai un grido autenticamente disperato al cielo smorto che mi sovrastava, alla folla che mi odiava e mi voleva morto e mi malediva, ai boia, ai due uomini sui cavalli, ai frati e a quelle vacche.

Gridai esasperato un verso vuoto, illogico e il boia mi spinse brutalmente la faccia, già serrata, contro la transenna per invitarmi con le brutte a non provarci più. E mentre il carro proseguiva l’orrenda marcia il cielo si squarciò d’improvviso con un rombo acuto e iniziò a piovere ma quella gente, quella fila di gente imbestialita e assiepata non pensava a ripararsi, preferiva rimanere lì a bagnarsi pur di maledirmi. I miei occhi non lacrimavano più, congelati dallo sconvolgimento e dalla rassegnazione, ormai non c’era più speranza. Ma, benché la mia vista fosse fortemente ostacolata dall’orrore che portavo nel corpo e nella mente per il quale tutto perdeva luce e lo sguardo rifletteva il trauma dello spirito, vidi a circa 400 metri da me la piazza dove mi stavano conducendo, la piazza del patibolo. Vidi, sotto il cielo plumbeo e piovoso, un largo palco di legno delimitato, da dietro, da un’alta palizzata intrecciata e nel mezzo del palco un palo alto almeno il doppio dell’altezza dei due energumeni che mi minacciavano sulla soglia della mia cella; vidi poi diverse persone che si muovevano, formicando, da destra e da sinistra e tra quelle persone vidi anche delle figurine basse, fanciulli o nani.

Il terrore del dolore e della morte aveva ormai raggiunto vette così apicali che quando scorsi la piazza del supplizio con il suo palco e tutta quella gente che mi aspettava, le mie membra iniziarono a tremare e i brividi sollecitarono la mia pelle, la mia carne, alla vista di quell’infernale organizzazione.  Mentre la folla, donne, uomini, ragazzi, vecchi, continuava a gettarmi addosso di tutto, a gridare tutto il suo abominio, un uomo si sporse più avanti dalla staccionata entro la quale era diviso dalla strada del mio calvario, quasi raggiungendo i buoi e il carro e con un secchio in mano simile ad una tinozza, gridandomi “Crepa stronzo!!!”  mi gettò addosso qualche litro di acqua fredda gelata.

Il mio corpo raggelò ed io gridai, travolto da quel ghiaccio, avvinghiato alla transenna senza potermi dimenare dal dolore e dall’atroce sofferenza. Ma non persi  mai la ragione che rimase lucida e cosciente mentre il carro, lentamente, orridamente, si avvicinava alla piazza. L’acqua gelida mi aveva quasi distrutto e con la testa bagnata, china in avanti, quasi persi i sensi ma la forza della rassegnazione me lì conservò intensi forse perché il mio supplizio fosse ben vissuto. E la marcia proseguiva quando, da dietro, udii dei cavalli che galoppavano con impeto e si portarono accanto a me con in groppa due uomini altrettanto muniti di spade nel fodero, cappelli appuntiti e giacche marroni. Quei due ordinarono che il carro si fermasse all’istante. “Dovete subito interrompere l’esecuzione! Ho tra le mani il decreto di pochi minuti fa del Capitano di Giustizia Sinis che vi ingiunge di fermare l’esecuzione!!” disse uno dei due cavalieri. “Cosa?!” gli rispose il boia mentre io stavo per svenire sul colpo e sentivo la folla incrudirsi ancor di più. “Dovete interrompere il supplizio, senza por tempo.

Il Capitano Sinis ha ordinato così nell’ultimo decreto, questo, legga lei in persona, e ci ha incaricato di correre per comunicarglielo prima che fosse troppo tardi. Interrompete subito e liberate il prigioniero” e i miei poveri, umidi, sfibrati occhi videro che quel tizio passava un foglio piegato nelle mani del boia che lo aprì e lo lesse mentre io fissavo la piazza, immerso più nella dimensione dell’oltretomba che, ancora, in quella dei vivi. “E sia!!” disse il boia palesemente irritato, ordinando anche ai due cavalieri, sui ronzini accanto al carro, di fermare il corteo per slegarmi. E un lume salvifico si riaccese immantinente dentro il mio corpo straziato: era finita, non mi uccidevano più!!! Fradicio nel mio saio lugubre, raggelato dal freddo subito, quasi iniziai anch’io a pregar Iddio, il carro si fermò all’istante ed il boia si avvicinò ai miei lacci per scioglierli come gli era stato imperato. No, ancora non ci credevo mentre il boia slegava il mio corpo da quella sedia e dalla transenna ma quell’atto era prova che interrompevano l’esecuzione. E non ci fu bagliore di luce, miraggio di mondi beati, universi remoti e angelici, arcobaleni paradisiaci che potrebbero superare la gioia inumana che provai in quei secondi, quando il boia mi scioglieva dalla strada del patibolo!

Emaciato, spezzato, gelato, rinnegato, dovevo ringraziare quel tale Sinis che aveva decretato la mia salvezza. Non riuscivo quasi a muovermi quando mi slegò il boia, il mio corpo pativa e a fatica riuscì a rialzarmi, il cuore scoppiava ma il boia, dopo avermi slegato, fece per farmi scendere dal carro funereo che mi stava accompagnando alla morte. Ma i traumi erano stati troppi, i patimenti del cuore eccessivi, inattesi e le mie carni ne portavano il segno nel sudore che esse promanavano. Così, dolorosamente, spostai le gambe verso la destra della sedia e provai ad alzarmi ma non ci riuscii: i nervi devastati avevano bloccato ogni possibilità di azione nel mio corpo.

Allora il boia, seccato, mi prese duramente per una spalla per spronarmi ad alzarmi e a scendere. Mi riattivai nella coscienza che sarei stato vivo, ancora vivo. Con la fatica del salvato in punto di morte mi mossi, mi alzai e stavo per scendere da quel carro legnoso quando l’impeto della pioggia si smorzò e mi parve di vedere una luce vivida all’orizzonte che superava il contado.

Segue…

Yari Lepre Marrani

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