Arte come filosofia :“EXODUS” di Michel Mirabal al Castello di Barletta

Arte come filosofia :“EXODUS” di Michel Mirabal al Castello di Barletta
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Arte come filosofia 7

EXODUS” di Michel Mirabal al Castello di Barletta, dal 21 gennaio al 14 aprile 2024.A cura di Nelson Herrera Ysla con Riccardo Carbutti, Gustavo Vilariño e Quique Martinez.

Di Andrea Cramarossa

Fig. 1 “Exodus” di Michel Mirabal

Esodo, parola del distacco, dell’allontanamento, della separazione collettiva, comunitaria, dello spostamento di interi popoli. Esodo, ovvero dello spostarsi. Il compimento di un viaggio, l’attesa di un miracolo, forse, l’attesa di un nuovo mondo-modo di vivere, di una nuova vita, di un nuovo miraggio…

Cosa spinge gli esseri umani a spostarsi, ad “allontanarsi” dal luogo dove si è nati? Un viaggio momentaneo, per godere di nuovi paesaggi, conoscere nuove persone, immergersi in nuovi scenari, assaporando nuovi cibi. Il senso del nuovo che ci obbliga a disvelare il nostro desiderio d’altrove, il mito nella fiaba, la leggenda che si esprime nei ricami delle nostre fantasie, l’aleggiare lieve della possibile corruscante lotta delle nuvole che imperversano in un cielo da biasimare, quel cielo che non contiene più le nostre speranze, che non da segni di benevolenza, che non ascolta le istanze e i tumulti dell’anima.

Oppure, ancora, lo spostamento è un viaggio continuo, mai esausto, non hai il tempo di guardare un tramonto che, presto, quel tramonto te l’hanno tolto da sotto al naso, trasformandolo in una poltiglia di colori che essudano dalla pelle indurita dalle intemperie, dalle camminate, dalle trasvolate come dagli attraversamenti delle acque marine e dolci di fiume e di lago. La natura che si fa oggetto attraversabile, sormontabile, superabile, penetrabile. Coacervo di paure recondite, insieme di foreste ingannevoli e meditabonde, la natura è luogo ove perdersi, dove mischiarsi, meticciarsi ed uscire, forse e se mai se ne esce incolumi, mutati.

Fig. 2 Michel Mirabal “Exodus”, frammento dell’omonimo cortometraggio.

Lasciare la propria terra, il proprio nido, diremmo, o casa, per meglio dire e, quindi, la propria natura esplorabile in tutto ciò che si espone e si frammentariamente esplode dall’interno di sé ad un esterno obbligatoriamente riconducibile all’avventura del vivere e, viceversa, dall’esterno l’inondazione di informazioni, immagini, suoni, rumori, paesaggi che si riversano nel corpo nostro facendone “casa”, è anche un segno doloroso di questo viaggio spesso non desiderato, di questo viaggio che noi chiamiamo esodo e che continuiamo a non voler vedere muoversi accanto a noi, inarrestabile, ci obbliga al continuo spostamento, questo, sì!, di verità, da un nucleo intangibile e fatto di retoriche inascoltabili e insopportabili o da un nucleo di indifferenze fatto di volti impassibili atti alla banalizzazione dell’essere umano visto come soglia per l’orrore del vivere e non più come languido pensiero azzurro che si innesca in quel cielo di nuvole irretite dal sole.

Fig. 3 “Exodus” di Michel Mirabal.

E, dunque, cosa resta dei nostri passaggi, di questo nostro irrisolvibile andare? In questo caso, potrebbero restare di questo “noi” e dopo il nostro passaggio, anche oggetti identificativi che diventano identificanti, ossia gli innumerevoli passaporti di scambio di identità, dove lascio la mia terra, è vero, la mia casa, è verissimo, ma lascio anche il mio nome e il mio cognome per acquisirne di nuovi, per essere, appunto, io stesso nuovo approdo.

Tra le stanze del Castello di Barletta è ancora possibile ammirare le opere in mostra dell’artista cubano Michel Mirabal, già ospite della Biennale di Venezia nel 2023, espone le sue opere in tutto il mondo. Le ampie sale del magnifico maniero, contengono opere che segnano il passaggio di molteplici umanità da una realtà di vita ad un’altra, sentito dall’artista con profonda drammaticità, dove è chiara la costrizione al “dover lasciare” e, queste opere, appaiono a tratti come oggetti di lascito, eredità del fugace, segno di esistenze effimere che hanno tentato il salto e il salvataggio di un possesso ormai irrisorio, quello ormai poco terreno e sempre più spirituale, un movimento di ambagi cilestrini che obbligano chi osserva a sussurrare l’ineffabilità del commiato che è abbrivio di un lungo addio. E la persona ritratta nella foto identificativa diviene improvvisamente figura angelica, incasellata in un cielo di passaporti e di identità lacrimanti e fantasmatiche. Ma, qui, le forme significanti si susseguono intrappolando l’osservatore, man mano che si passa da una sala all’altra, in una immagine di sé del tutto inedita, così come potrebbe vedersi l’escluso, il migrante, il viaggiatore, lo straniero tutte figure immaginate e immaginabili già ben descritte nei nostri giochi di specchi interiori. Non è una recita, così come si potrebbe credere, non siamo attori: quel teatro non c’entra niente, qui; si tratta, invece, di una sovrapposizione di vite, di esistenze, non maschere ma piuttosto essenze vitali, quelle che obbligano “noi che restiamo”, ad una indagine esplorativa minore che, però, è letteratura ingannevole nelle nostre già consumate autobiografie, prive di lingue metafisiche e di rumori dalle penombre.

Fig. 4 “Exodus” di Michel Mirabal

E, ancora, di cielo si parla e si tratta – e di cosa se no? – quando si parla di esodo, di diaspora, di viaggio, di questo nostro irrisolvibile andare. Lenzuola stese in una delle sale del castello, ricordano a noi che osserviamo, delle caduche istanze che raccomandiamo al nostro vivere, obbligati come siamo a tenerci strette tutte le nostre passioni, così come i nostri giudizi, obbligandoci ad una esistenza refrattaria alla solennità di un cammino sonoro comunitario, di conseguenza piegata alla solipsistica elucubrazione di sé nel proprio specchio, anche qui e ancora, nella speranza di poter viaggiare attraverso questa eterotopia, come se, appunto, l’umano non bastasse più, non fosse più sufficiente e, perduto il senso dell’altrove, ecco spostare (ancora un volta, spostare) la nostra irreprensibile voluttà di viaggiare verso la più incoraggiante volontà di restare, spostando l’obbligo a genti e cose a noi estranee.

Fig. 5 “Exodus” di Michel Mirabal

Migranti si chiamano coloro che si spostano e che, spostandosi, portano con sé il mondo proprio dentro una casa di cartone o di plastica o di pelle, un animale dentro un altro animale, questa è la mia visione del migrante, colui che sogna il viaggio infinite volte, come una certezza di incommensurabile bellezza, transustanziata in quel cielo perennemente nuvoloso, poiché colmo di pensieri e di smanie, ma anche ricco di acqua lustrale, appetitosa agonia delle anime assetate di luce e, cioè, l’orma beata di un passo gigantesco, quello di milioni e milioni di persone che, ancora, abitano il proprio corpo, l’unica casa che resiste alle inconcludenti meraviglie del disastro.

Così, restiamo inspessiti nella nostra impotenza, però guardati da questo Pianeta che, ancora, ci tiene e, tenendoci, riversa nell’Universo intero il grido muto di una umanità possibile.

Andrea Cramarossa

EXODUS” di Michel Mirabal al Castello di Barletta, dal 21 gennaio al 14 aprile 2024.
A cura di Nelson Herrera Ysla con Riccardo Carbutti, Gustavo Vilariño e Quique Martinez.

Mostra vista in data 21 gennaio 2024.

Daniela Piesco

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