Uno spazio per noi. Tra pensiero e realtà

Uno spazio per noi. Tra pensiero e realtà

Abitare uno spazio è riempire un luogo chiuso, compreso tra mura laterali, soffitto e pavimento, abbellirlo di cose che ci rappresentano, oppure è occupare un sito aperto, delimitarlo e indicare in qualche modo la propria presenza?
Possono essere valide entrambe le risposte, proprio come potrebbe essere valida la risposta che porta l’espressione “abitare uno spazio” su un livello parallelo a quello unicamente fisico: abitare uno spazio è abitare sé stessi.

Emily Dickinson, chiusa in una camera, vestita solo di bianco, qualche sporadica uscita: abitava lo spazio delimitato dalle quattro mura che le permetteva di esplorare un altro spazio tutto suo, appartenente al proprio sentire. E ancora Virginia Wolf ci racconta dell’importanza di avere una camera tutta per sé, e non certo per un senso esclusivamente di proprietà.
Quale scopo porta con sé abitare uno spazio? Appropriarsi di qualcosa per raggiungere un fine, per poter dire “io sono qui”, “questo è mio”, “qui ci sono io”, “qui posso finalmente dare voce alle mie virtù”, oppure semplicemente “io sono”.

Ognuno ha bisogno del proprio luogo per necessità, per coltivare le passioni, per affermare, definire; possedere uno spazio fisico (materiale), piccolo o grande che sia, credo rappresenti la condizione minima e necessaria affinché esso possa dilatarsi, possa espandersi e possa condurre a spazi paralleli, non sempre tangibili. Il fatto che un luogo fisico rappresenti una sorta di soglia verso un nuovo spazio altro, nasconde un’opportunità unica: lasciare che l’essenza del proprio vivere riesca a prendere consapevolezza di sé stessa, a crescere, ad affermarsi.

Nella società contemporanea, ha senso questo discorso? Ha senso, ancora, pensare allo spazio come elemento minimo materiale che ci permetta di vivere tra realtà e coscienza per raggiungere la voce di questa?
Distanze sempre più superate, realtà e realtà virtuale, quest’ultima pare prossima a prendere il sopravvento e ci illude di una vita che ironicamente potremmo definire alla Emily Dickinson: chiusi in una camera, capaci di vedere il mondo con una app, un semplice click, attraverso uno smartphone.

Ecco, vedere il mondo che è spazio e abitarlo, diverrà veramente tutto ciò?
Forse sì, lascio il beneficio del dubbio, però una cosa è certa: chi prende carta e penna, chi ascolta la vocina che invita a cercare le testimonianze della propria storia, del proprio spazio per realizzare e condividere nuovi pensieri, è ben lungi dall’immediatezza contemporanea.
Non è la trasposizione di un’emozione o di un pensiero nato nel guardare virtualmente un luogo.
Abitare uno spazio è concedersi il tempo per riempirlo, è investire passioni, riflessioni e pensieri rivolti a sé stessi, ma che potrebbero raggiungere gli altri. Un po’ come accade con i coriandoli: tra i tanti gettati euforicamente in aria, può accadere che uno trovi riparo in una piega del vestito di un passante, o si adagi piccolino e minuscolo tra i tenui fili di erba. Bello nel suo colore e nel suo spazio. Abitare uno spazio, non significa isolarsi. Tutt’altro. È proprio della natura umana stare in relazione e in rapporto con l’altro, e fondamentale è riuscire ad abitare un luogo per farlo vibrare della nostra essenza.

Albert Camus, ad esempio, da fanciullo ha abitato il quartiere popolare di Belcourt (Algeri) correndo su e giù per le vie, tra case sovraffollate, tra gente che trasformava la strada in un salotto per conversare, creando nuovo spazio da abitare. Camus è tornato lì anche da adulto, attraverso i ricordi e ha dato voce a un altro spazio, quello della povertà: non certo una dimensione materiale, ma un luogo astratto che diventa concreto allo sguardo. Eppure, anche questo spazio per Camus, ha il valore del coriandolo colorato che si adagia nell’erba: è stato il momento in cui ha conosciuto la bellezza della libertà, in cui poteva godere del sole e del mare algerino in qualsiasi momento lo desiderasse.


di Francesca Girardi

Francesca Girardi

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