Woody Allen negli anni duemila: da Matchpoint a Rifkin’s Festival

Woody Allen negli anni duemila: da Matchpoint a Rifkin’s Festival

di Federico Manghesi

Sebbene le opere più conosciute del regista americano siano per lo più realizzate tra gli anni Settanta, Ottanta e Novanta, il genio artistico è ben lungi dall’essersi esaurito con l’ingresso nel nuovo millennio. Rispettando un ritmo altissimo, che quasi mai è andato però ad intaccare la qualità del prodotto finale, il regista di “Io e Annie” ha continuato a sfornare film di straordinaria qualità. Sceglierne solo tre significa tenerne fuori molti altri, che avrebbero ugualmente meritato una menzione.

MATCHPOINT

“È incredibile come cambia la vita se la palla va oltre la rete o torna indietro, no?”

Partiamo con una pellicola di grande successo, una delle più atipiche dell’Allen dell’ultimo periodo. Uscito nel 2005, Matchpoint racconta una storia d’amore tra Chris e Chloe, compromessa da Nola (Scarlett Johansson) di cui il protagonista finisce per innamorarsi. La difficoltà di tenere insieme le due relazioni, l’una segnata dalla sicurezza della vita coniugale, l’altra dall’impeto dell’innamoramento porta il protagonista a ricorrere a soluzioni drastiche e impensabili. Il film si allontana dallo stile umoristico Alleniano, pur preservandone l’indole, per mettere in scena un dramma basato sulla conflittualità interna dell’uomo, che affiora proprio nella sua vita sentimentale. L’essere umano è dipinto in tutte le sue brutture, che ne delineano un profilo fortemente egoista e incentrato sul proprio benessere (anche a scapito dell’altro). In questo film, l’egoismo domina qualunque sentimento, l’unico amore che il protagonista è portato a provare, è verso sé stesso. Il finale getta un’ulteriore onda di pessimismo su tutto l’accaduto: non esiste giustizia al di sopra di quella terrena e, dove quest’ultima sbaglia, i colpevoli restano impuniti. Non c’è karma o senso di colpa interiore, che restituisca un senso di giustizia a quanto successo. Tutto, nell’universo di Allen, è dominato unicamente dal caso.

MAGIC IN THE MOONLIGHT

“Il mondo può anche essere privo di scopo, ma non è del tutto privo di una certa magia”

Il 2014 ospita una commedia ambientata in Francia, che inverte la rotta rispetto al film precedente “Blue Jasmine” (capolavoro dai toni più cupi). Magic in the Moonlight racconta di un prestigiatore, ingaggiato da un amico per svelare i trucchi di una presunta medium, che si fa pagare con la promessa di mettere i suoi clienti in contatto con i propri defunti. Il protagonista affronta la faccenda con assoluto scetticismo, ponendosi come uomo razionale e convinto del drammatico realismo della vita. La medium, impersonata eccezionalmente da Emma Stone, costituisce l’alter-ego perfetto, simboleggiando la fede nell’ultraterreno e il rifiuto del puro materialismo. Nonostante i pensieri espressi nel corso del film seguano i principi della filosofia alleniana, il finale dona al tutto un messaggio positivo. Proprio attraverso l’accettazione della realtà, è possibile arrivare ad una felicità autentica, che non sia frutto dell’illusione. Un film che rifiuta la fede religiosa, così come la ricerca dell’occulto, ma che abbraccia invece la ricerca della bellezza e della gioia nel mondo emotivo dell’uomo. L’amore è l’oasi che permette di controbilanciare le brutture del mondo, ed è questa la vera magia.

RIFKIN’S FESTIVAL

Il 2021 vede Woody Allen alle prese con un film estremamente personale, dove oggetto del racconto è il suo rapporto con il cinema e il ruolo che quest’arte ha nella sua vita. Il protagonista, che possiede i tratti caratteriali dello stesso regista, si trova a scandagliare la sua vita: il suo rapporto con il cinema moderno, con le relazioni sentimentali, con il suo blocco creativo e, infine, con la sua stessa esistenza. I fatti narrati prendono vita nei giorni di un festival cinematografico, dove la moglie del protagonista fa la produttrice per uno dei film in concorso. Le memorie e le riflessioni del personaggio principale sono messe in scena seguendo lo stile di pellicole di grandi autori come Fellini o come Bunuel, citandone anche lo stile e le fattezze tecniche. Questa brillante trovata è lungi dall’essere un puro esercizio di stile. Il messaggio di Allen è chiaro: i film in questione sono divenuti talmente parte dell’immaginario del regista, che egli può rivedersi in loro e pensare alla sua vita attraverso quelle pellicole. Rifkin’s Festival è sintomo di un profondo amore per la settima arte, in grado di risollevare l’uomo dalle delusioni che invece gli riserva la realtà. È esplicativo che, sul finale, sia proprio La Morte, caricatura del personaggio di Bergmaniana memoria, a dare al protagonista la chiave: non cercare il senso della vita, ma al contrario vivere momento per momento, pur consci della piccolezza e della caducità della vita stessa. Woody Allen fa sue e rielabora le riflessioni di numerosi altri film, per poi estrapolarne un messaggio personalissimo, che non tradisce il consueto istinto ironico che lo contraddistingue, e da cui risulta un film degno del suo genio.

Federico Manghesi

Redazione

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