Arte come Filosofia V.

Arte come Filosofia V.

Il nuovo progetto di arte diffusa nel borgo antico di Caggiano, in provincia di Salerno, nella visione di Giuseppe Morra.

Di Andrea Cramarossa.

Il Palazzo Morone nel centro storico di Caggiano, piccolo centro del salernitano molto prossimo alla Basilicata, nel pieno di colline verdeggianti e boschive del Parco Nazionale del Cilento, ospita la collezione Vettor Pisani della Fondazione Morra, inaugurata il 30 giugno 2023.

Il Palazzo, fresco di restauro, si erge, incastonato tra altre abitazioni, quasi al centro di un crocevia di viottoli, stretti pertugi che svicolano il passante nella scorrevolezza di budelli pietrosi di un luogo animato da presenze che sono state, presenze di un passato che poggia, calandosi, in una prestanza geologica, come un’eco remota di antichi viavai, in una splendida, tellurica, epifania.

Epifania resa evidente dal panorama visibile dalle terrazze del Palazzo stesso e, naturalmente, dal Palazzo in sé, in quanto luogo che ottiene la riconoscente presenza di destinazione artistica, dalla formula paradigmatica di messa in stallo e posizione delle opere del Pisani all’interno degli spazi museali e, infine, le opere stesse del grande artista di origini baresi.

Fig. 1 Vettor Pisani, “Agnus Dei”. Foto di Andrea Cramarossa.

A me sembra che questo insieme di verbosità artistica che brama il suo stesso dirsi nell’atto di innalzarsi a motto risoluto ed eterno alla Bellezza, si dipani attraverso tre visioni. La prima è senz’altro quella di Giuseppe Morra, che ha voluto aprire la sua

visione dell’arte nella non facile presentazione della sua rappresentazione, con la collezione Vettor Pisani, dislocata magistralmente e genialmente negli spazi del Palazzo, costituendo un’opera d’arte a sé stante. La messa in loco delle opere, l’allestimento, è un continuo rimando – per giunta circolare e labirintico – alla sacralità tragica del destino dove la voluttà dello sguardo è la meccanica poco indulgente che muove ciascuna opera e ciascuna stanza in cui esse sono collocate, senza chiuderle in una rigidità opprimente, e sollecitando un perpetuo rimando alle visioni coscienti dell’esser-ci, co-esistendo, nella maniera, cioè, in cui le opere hanno, talvolta, la capacità di guardarci, oltre che di esser guardate, e questa occasione è liminalità della messa in scena.

Noi che guardiamo, dunque, co- esistiamo con le opere esposte, con esse ci esponiamo essendo noi stessi esibiti e non assorbiti; con esse percorriamo i nostri stessi, incongrui corpi, seguendo traiettorie di irresistibile dissoluzione e accogliendo l’intensità intima della carne come un incanto che si scioglie ad ogni passo; con esse lasciamo andare il nostro pensiero logico poiché risulta inutile perdersi in fuggevoli concetti e congetture e con la sensazione insolita di non poter mai più fare a meno di quelle visioni, come tenuti e lasciati continuamente da un qualche mistero, noi passanti in piedi al margine di una poesia, noi in cerca di un continuo equilibrio, e questo meccanismo, questo movimento, è dovuto a come le opere si sono fatte luogo per abitarsi nel mezzo del nostro sguardo. Tale possibilità è senz’altro audacia di chi ha voluto infondere vita a ciò che era destinato a inerzia.

Il secondo inno alla Bellezza è dato dall’idea di trasformare il Borgo antico di Caggiano in un museo diffuso. Idea, questa, ancora di Giuseppe Morra, nella previsione di occupare altri edifici del paese a mo’ di specchio di una Virtù propria del fiato vitale che tutto trasforma. Da gennaio 2024, ad esempio, un altro palazzo potrà custodire le opere del celeberrimo gruppo teatrale “Living Theatre” ed altri

luoghi ancora vedranno i propri vuoti d’abbandono farsi pieni di Bellezza, o meglio, vorranno dirsi in altra forma di Bellezza poiché già attualmente serbano in sé la languida magnificenza del diruto. Lode, dunque, a Giuseppe Morra che ha voluto muovere in questo senso la forza vitale dell’esistenza comunitaria che tale diventa, ossia propriamente comunità ma attorno all’arte che ha, in seno al suo esser-ci, il moto perpetuo della propagazione d’intuizioni, divenendo, dunque, comunità plurale poiché rivolta all’universo, e merito anche agli uomini e alle donne autoctoni che, evidentemente, hanno creduto che questa strada di ri-edificazione fisica e

spirituale d’un luogo, potesse essere realtà. Ne gioveranno sicuramente i cittadini, i passanti e il popolo di fantasmi che solitamente abita l’abbandono, finalmente più vicino ad una sostanza cosmica e pronto a farsi materia diversa da quella del ricordo o del rammarico, abbattendo le barriere che aspramente ci separano dall’intangibile.

                                         Foto 2. Veduta di Caggiano (SA). Photo Amedeo Benestante © Fondazione Morra, Napoli

L’opera – omnia – di Vettor Pisani, ricchissima e a dir poco intrigante, si apre, a mio avviso, su due piani di osservazione dell’oggetto (oggetto che non è l’opera d’arte in sé), ossia l’enigma e il narcisismo, divenendo, nel racconto esibito, il vero centro della sua storia, cioè storia di questi due oggetti. Storia dell’enigma. È ciò che nella mia mente continuava a rimbalzare in domande ossessive senza risposte mentre osservavo le opere del grande artista. Poi, mi sono visto e ho capito che ero lì con l’occhio del voyeur e non dello spettatore che guarda le opere esposte in un museo. Io stavo spiando. Spiavo una intimità, spiavo una morte. Una piccolissima morte che si ripeteva in solitaria e in ridondante ammutinamento del tocco, una economia del tratto che suggerisce il verso sottile del coito segreto, minimo, letteratura per topi e per pavoni.

Dentro la mia testa, un concerto per lumache distopiche e giaculanti, si infrangeva sui miei sensi resi appuntiti dalle questioni materiche e cromatiche, come onde irose del mare, producendo una vertigine insperata e, forse, distruttiva, dentro il cono perfetto di una Natura circostante confortante e pacifica. Sentirsi scivolare, questa era la sensazione. Questa è la sensazione che ancora provo se guardo l’indicibile che Pisani ha ritratto e, questo, è per me il senso della catastrofe che ritrovo nel suo personale museo. La catastrofe precipita all’incontrario, dal basso verso l’altro; la catastrofe è l’eternità e il finito dentro l’infinito e suggerisce ancora un nuovo movimento, la strana sensazione – visione che gli elementi scelti a comporre le opere siano – ancora – vitali, magicamente immersi in quella ricerca alchemica della trasformazione del ferro in oro e pronti a dis-muoversi nell’aria, dis- perdersi, per ritrovarsi, attaccati, nel concetto materiale dell’unità degli opposti in una giustezza istintiva, ispirata, ripetitiva. Quando noi siamo nella nostra visione, noi, vediamo il muoversi dell’oggetto che è fermo nell’opera e che è anche movimento dell’opera al di fuori di essa, un processo di vitalità surreale che si appropria di categorie elastiche ghiotte di una modernità che ci coglie ancora impreparati: noi, popolo attuale di una super – moderna – realtà – super – tecnologica, siamo ben più vecchi di queste opere infinitate.

Fig. 3 Collezione Vettor Pisani, Palazzo Morone Caggiano (SA). Photo Amedeo Benestante © Fondazione Morra, Napoli, Storia del narcisismo. C’è un limite evidente nelle opere di Pisani che coraggiosamente mi accingo a valicare: l’atto dell’interdizione, che è proprio dell’atto artistico, nella drammaturgia dell’incesto. Chiaramente siamo di fronte a un ricordo d’infanzia. L’avvoltoio di Freud, e Freud stesso, spunta dappertutto anche dove non è ritratto. Così come intravedo, non so ancora bene perché, la sagoma di Max Ernst dietro molte forme, quasi a voler suggerire una intercapedine tra le porte, le finestre e i muri, quasi a voler seguire tracce del fantasma in questa propriamente fantasmagorica precipitazione di sostanza, nell’ipostasi della leipsomena del trasparente reinvio contemplativo al rumore viola della perduta enfasi vitale, sempre sadicamente sospesa per il collo in un camminamento bidimensionale e scorrevole. Il trasparente è, per me, la chiave di grande e lucida trascrizione della verità insita in queste opere. Ma, l’avvoltoio, è un errore. Il rapace in questione è il nibbio. Ora, non cambia molto poiché sempre di simbolo fallico si tratta, sebbene tale uccello sia riferito alla madre. Ma alla madre di chi? Di Leonardo Da Vinci.

Freud, dopo un viaggio in America, pare abbia avuto una schiarita sui mille dubbi che ottenebravano la sua ricerca nei meandri biografici del genio toscano, riesce a dare una interpretazione alla frase scritta da Leonardo di suo pugno e riferita a sé quando era in fasce e ancora in culla:

“…questo scriver si distintamente del nibbio par che sia mio destino perché nella prima ricordazione della mia infanzia e mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venisse a me e mi aprissi la bocca con la sua cosa e molte volte mi percotessi con tal coda dentro le labbra”.

Ecco che colgo, grazie a questa conoscenza, l’evidente opportunità di apertura bidimensionale per trasferire la mia presa estetica nel cosmo diseguale di un luogo periferico, a margine del mio albero genealogico, accanto agli alberi di chiunque altro lì presente, poiché noi muoviamo col nostro albero accanto a noi stessi e il nostro essere abitato e mai libero, ecco che, improvvisamente, si sfracella di fronte all’accumulo sapiente – quasi un accatastamento – degli oggetti che tentano di dare forma a un pensiero e che, invece, danno forma al movimento che in quel grumo li ha condotti eradicando l’inerzia dell’utilizzo, emancipando la concretezza dal suo apodittico strappo dell’inutile, sublimandosi nella forma della deformazione, unico canto possibile per narrare l’abisso, l’oblio, Coro unanime dell’infrangibile Destino. In queste opere regna lo stesso movimento delle statue di gesso, marmo, pietra che sono colosso e colonna della nostra civiltà.

  Fig. 4 Collezione Vettor Pisani, Palazzo Morone Caggiano (SA). Photo Amedeo Benestante © Fondazione Morra, Napoli.

Per Freud, dunque, il nibbio-avvoltoio è la madre mentre la coda è il pene che il fanciullo ha pensato come attributo sessuale della madre. La scoperta che la madre ne era priva ha causato il desiderio, frustrato, di ritrovare quella tenerezza materna che è il cosmo intero della prima fanciullezza. Questo sforzo indagatorio, cioè propriamente concettuale, costringe, in Pisani, anche alla maturata forma  dell’androgino, figura antenata che tutto compensa, figura della perfezione, completamento e appagamento del desiderio in quanto tautologicamente universalità della creazione, indispensabilità della luce che conduce alla notte. Dunque è stata la traduzione a ingannare il volto del rapace, ossia, il volto del pittore che si rappresenta nell’inganno. La traduzione ha perduto frammenti di completezza. Freud apprese della vita di Leonardo dal famoso romanzo di Merezkovskij, traduzione di un saggio di Smiraglia Scognamiglio tradotto in tedesco da Maria Herfeld che traducevano il nibbio della fantasia di Leonardo con la parola tedesca “Geier” che significa, invece, avvoltoio. L’inganno del volto, che ritroveremo nelle forme misteriose della Gioconda e in molti altri ritratti, si ripercuote come un’eco nelle didascalie non esplicitate delle opere di Pisani. Ovunque, il volto del soggetto o dei soggetti rappresentati, è ingannato e ingannevole proprio perché infrantosi nella traduzione, poiché le opere del Pisani costituiscono omnia opera di disinibita distillazione del linguaggio e sua corruscante indagine, dove la Storia dell’Arte si appropria di spazi di flagranza in citazioni perpetue e dinamiche volutamente tradotte nell’inganno del volto.

Tale magnificenza, nell’occhio dell’Artista e dal suo occhio, io credo, si irradia ovunque, intridendo il tutto circostanze, persino le cose “normali”, di indicibile mistero, narrando di corpi che imprigionano l’anima, piuttosto che di corpi come campi di battaglia – vittoria e sconfitta del sangue dei nostri alberi genealogici – e affidando al corpo femminile la capacità di traghettarci verso l’ignoto, forte del suo simbolismo nictomorfo, assieme ai gemelli e alla ploriferante genia di topi che si dimenano nelle nostre animiche profondità.

Andrea Cramarossa

Museo di Palazzo Morone – Caggiano (SA ) – Collezione Vettor Pisani Fondazione Morra.

A cura di Giuseppe Morra.

Mostra vista il 30 giugno 2023; in allestimento fino a ottobre 2023. Testi di riferimento.

  • “Storia dell’occhio” di Georges Bataille (Ed. SE).
  • “Psicoanalisi dell’arte e della letteratura” di Sigmund Freud (Ed. Newton

Compton).

  • “Eroica/Antieroica” a cura di Laura Cherubini, Andrea Viliani, Eugenio Viola

(Ed. Electa/Museo Madre Napoli).

Redazione

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