Arte come Filosofia III. Visita al Palazzo Reale di Milano per la mostra “Max Ernst”

Arte come Filosofia III. Visita al Palazzo Reale di Milano per la mostra “Max Ernst”

Di Andrea Cramarossa 

In questa bellissima mostra curata da Martina Mazzotta e Jürgen Pech, viene proposta un’ampia e quasi compiuta retrospettiva delle opere e, dunque, della vita del grande artista tedesco, poi naturalizzato statunitense e francese, e qui proposto quale artista umanista in senso neorinascimentale, per la prima volta in Italia.
Cerco di andare avanti seguendo un ordine – anche mentale, ora che mi appresto a scrivere questo mio diario di viaggio dopo molto tempo dalla frequentazione delle opere in mostra in quel di Milano, perché molto tempo c’è voluto per prendere distanza necessaria da quei capolavori, per provare a ricercare le parole sufficienti per rendere il culmine di tale bellezza un fatto reale e dicibile – ma con grande difficoltà, poiché si sta qui parlando e trattando della poetica di un artista sfuggente, dadaista, patafisico, surrealista, romantico, umanista neorinascimentale nel senso che si tratta di un umanista interessato al Rinascimento. Tutto qui. O, forse, no. Non solo questo. Parliamo di uno dei più grandi artisti del Novecento, tra i più citati e discussi, elegante e dalla vita avventurosa ma sconosciuto a più, forse proprio per questa sua inafferrabilità e difficoltà a fissarlo in un solo, unico, determinato periodo storico e culturale: egli sembra appartenere a molte dimensioni e sembra anche appartenere alla nostra contemporaneità: ovunque, mi par di riscontrare elaborazioni dei suoi dipinti e delle sue visioni e, soprattutto, dei lavori grafici. Le opere di Ernst riverberano dappertutto. E non ne sono stupito, data la loro forza e lo stupore che suscitano in chi le guarda.

 Max Ernst. L’angelo del focolare.

E anche la commozione profonda. C’è un senso di rispetto che collego ai grandi spazi naturali, alle vedute montane, ai boschi e alle foreste, al cielo, alle vallate, ai fiumi e ai laghi, quella forma di rispetto e di osservazione sia spirituale che scientifica della natura, che rende la mostra stessa quasi un invito ad una lieta severità e ad una compostezza d’animo che altrimenti non saprei spiegare. Questo senso di rispetto, dicevo, è un senso che mi accompagnerà per tutto il ricco itinerario che si snoda tra le stanze del Palazzo in questione, così gravido di mostre (contemporaneamente c’è lo splendido Bosch e, presto, Bill Viola), un senso che, appunto, ritengo emerga dall’amore scientifico e spirituale di Ernst per la natura, ma anche magico e alchemico, mitologico e misterioso, imprevedibile e, a tratti, sconcertante.
Di questo immenso viaggio che è il seguire linee tracciate dall’artista nell’arco della sua carriera, scegliendo, preferisco sostare, appena, in quel tempo meglio noto col termine Surrealismo.
La corrente artistica sviluppatasi in Francia ad opera del suo creatore, André Breton, e poi divampatasi in ogni angolo del globo, contagiando altri artisti ed altre arti, promuovendo a sua volta altre forme artistiche e altri “Manifesti”, con buona grazia, spesso, dello stesso Breton che si è trovato più volte a dover combattere contro l’uso e l’abuso di questa che definisco “magnifica scienza”, è, a mio avviso, la corrente artistica che più d’ogni altra ha condizionato il modo di vedere la realtà in tutto il mondo. Ernst ne ha fatto parte, assieme al suo amico Eluard, ad esempio e assieme a molti altri famosissimi artisti, entrando a pieno diritto fra gli artisti definiti surrealisti ma, ricordiamoci, momentaneamente, poiché egli è stato anche altro, è stato sé stesso. Ritengo si possa, da questa immensità, ritagliare uno spaccato storico-artistico-culturale che prenda il suo nome e la sua identità. Se penso ad un artista eterno, ecco, mi viene in mente proprio Ernst; egli era in una caverna preistorica a segnare il muro di sostanze rosse e nere; era assieme a Caravaggio nella composizione di Giuditta e Oloferne ed oggi, in moderni orbis pictus transpersonali che ovunque campeggiano nelle “storie” autobiografiche che si riscontrano nella pubblicità o nei social media, “composizioni”, appunto, frutto di una memoria che voluttuosamente impone e conferma il proprio ordito. Il termine “surreale” viene spesso frainteso e, soprattutto oggi, utilizzato come sinonimo di irreale o come qualcosa che sta ad indicare qualcos’altro di stravagante ed eccentrico, snaturando tutto un movimento d’arte e banalizzando il suo significato più profondo. I surrealisti volevano trasformare il mondo col pensiero di Marx e cambiarlo con le rime di Rimbaud. Facile immaginare perché da noi, nell’Italia del fascismo, non abbia mai preso granché piede e, anzi, sia stato addirittura denigrato e ridicolizzato da molti intellettuali e abbia anche subito le pressioni del nascente Futurismo, anch’esso proteso ad una visione nazionalista e meccanicisticamente meccanica del Paese. L’oggetto in movimento, quel movimento pensato da Hegel e che ci avvicinerebbe all’assoluto. Il Futurismo lo riproponeva sulle tele, nelle forme, nei manifesti, negli articoli di giornale, nelle poesie, nelle opere teatrali. E anche il Surrealismo. Con la differenza che (o con le differenze) che quest’ultimo si voltava indietro guardando al passato e con rigore e passione scientifica, senza voler dare spazio alla ragione e al raziocinio, sviluppava la sua arte principalmente attraverso la scrittura automatica o la realizzazione automatica di opere, ossia sempre una maniera di scrivere una serie di immagini, impulsi, visioni. È proprio questo rifiuto della logica che trova difficoltà ad esser accettato poiché considerato come una fuga dalla realtà e dall’io. Inoltre, si seguita a confondere il Surrealismo con Dada. Dada, però, non vuol dire niente nella sua geniale metafisica del ni-ente. Ma, Dada, è un’altra storia e torno per un attimo al Futurismo, altrimenti qui ci si perde davvero, con una rivelazione di Breton apparsa su “Le surréalisme et la peinture”, (Edizioni Gallimard, Paris, 1965) che, pur considerando esiguo il numero di opere futuriste degne di nota, non sottovaluterà il simultaneismo e il tattilismo di Marinetti e la sua idea di affrancare l’oggetto dalla staticità:

L’espressione più compiuta di tale modo di vedere resta il “Nudo che scende le scale” di Marcel Duchamp (_) Sulla scia del futurismo, va preso in considerazione un periodo di transizione, relativamente autonomo, di carattere meccanico (Duchamp, Picabia).

 Marcel Duchamp. Nudo che scende le scale.

A mio avviso il senso più vero del Surrealismo nasce da questa capacità tutta particolare degli artisti di contemplare, senza giudizio alcuno, la natura che li circonda. Mi ci metto in mezzo anch’io in questa definizione, autocitandomi. Perché confesso che è così anche per me. Ed è da qui che vorrei riprendere questo tortuoso cammino nella “magnifica scienza”, alla scoperta di qualche indizio per ricostruire l’immortalità così come l’amore per la vita. Nelle sovrapitture di Ernst degli anni ’20 non mancano ibridazioni che sfruttano natura ed artificio, mutuati proprio dal mondo dell’illustrazione scientifica (erbari, manuali anatomici, testi di ingegneria e meccanica) come nel caso dell’opera Giovane uomo carico di un fagotto fiorito (1920). Ma questa osservazione speciale della natura tutta tedesca e racchiusa nell’intraducibile parola Waldeinsamkeit (letteralmente “solitudine della foresta”), è un’osservazione a cui fa capo anche il grande pittore romantico Caspar David Friedrich che invita sempre a chiudere gli occhi per privilegiare l’occhio dello spirito per poi coltivare di giorno quanto visto nell’oscurità, in modo che ciò possa sortire un effetto sugli altri, dall’esterno all’interno, dall’interno all’esterno.

Max Ernst. Giovane uomo carico di un fagotto fiorito.

Ma non è solo questo. È molto di più. È quell’essere calati in un umanesimo neorinascimentale. È il verbo per dire l’incomprensibile del poeta Heinrich Heine che verseggia di questa solitudine pacifica e serena quando ci si trova da soli in un bosco, una sensazione di quiete contemplativa che si mette in atto a contatto con la natura.
Heinrich Heine scrive:

Tra i fiori il piede arriva troppo facile,
e i più sono calpestati;
noi via passiamo, ed essi tutti cadono,
superbi o delicati.

Negli scrigni del mare si nascondono
le perle; ma sappiamo
scoprirle, le foriamo, e poi nel serico
vezzo le imprigioniamo.

Le stelle son prudenti: esse rifuggono
dal nostro mondo ingrato,
e per sempre al sicuro in cielo splendono,
lanterne del creato.
(Heinrich Heine – Stelle prudenti)

Intendo, cioè, che egli parla di un punto inarrivabile, quindi, di un mistero che non può essere svelato, toccato, trasformato. Esso è oltre sé stesso. Esso è forma d’acqua e impassibile rumore del vivere e morire, è quella sensazione minore, latente nel silenzio, che leggermente pungola l’essere quasi come una carezza soffiata sulla pelle dell’anima ed è lì a dirci del silenzio naturale di un “bosco-foresta”. E delle stelle ambisce il tocco ancestrale in nostro amato Ernst, quando si occupa della creazione del portfolio Maximiliana o l’esercizio illegale dell’astronomia, ossia scritture in codice e numerose incisioni dedicate all’opera di Wilhelm Leberecht Tempel, astronomo senza diploma, disprezzato in Germania dagli astronomi professionisti, poeta ribelle. Questo libro è un’eccellenza dell’arte tipografica, un capolavoro dell’arte dell’incisione a colori. Quest’opera di Ernst è un omaggio al dimenticato scienziato che scoprì alcune comete periodiche, oltre a numerose stelle e nebulose, tra cui il pianeta Maximiliana. Le opere vengono realizzate collocando oggetti tridimensionali direttamente su una lastra di stampa, interessando così la caduta della polvere di colofonia. In seguito al riscaldamento della lastra, nel corso del processo di incisione, la polvere cade proteggendo la superficie in modo selettivo. Grazie a questo procedimento di stampa calcografica, gli oggetti posati sulla lastra hanno lasciato delle ombre, procedimento già utilizzato per Hölderlin Suite.

Max Ernst, Iliazd, Wilhelm Tempel, Georges Visat. Maximiliana o l’esercizio illegale dell’astronomia.

Impossibile racchiudere in una sola sosta questo lunghissimo viaggio nell’arte di Ernst. La sensazione di incompiutezza pervade il mio essere e, dunque, mi appresto a considerare la figura degli eroi “bachtiani” in questo squarcio di tempo presente, rompendo la sua egemonia e ridando nuova carica all’utopia che sottende sempre l’impresa artistica. Arrivederci Max Ernst, arrivederci a presto, su un nuovo pianeta.

Andrea Cramarossa

“Max Ernst”. Palazzo Reale, Milano.
A cura di Martina Mazzotta e Jürgen Pech.
Mostra vista il 22 febbraio 2023.

Testi di riferimento.

“Max Ernst”, Electa.
“Surrealismo 1919-1969”, Paola Dècina Lombardi, Electa.
“Che cos’è metafisica?”, Martin Heidegger, Adelphi.

 

 

Redazione

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