Sulle strade della vita

Sulle strade della vita

Mi chiamo Musli A., sono un macedone Rom, naturalizzato italiano.
Sono il presidente della onlus Stay Human che ho creato nel 2016 quando ho capito che era il modo più semplice per aiutare concretamente i rifugiati: sento che questa è la mia missione nella vita, perché se non mi rendo utile e aiuto gli altri, io sto male, ma sto male veramente!
Tutto è iniziato l’anno prima.
Tornavo da Skopje dove andavo ogni estate a trovare parenti e amici quando – percorrendo la strada verso la frontiera nei pressi di Veles – mi sono imbattuto in un’interminabile fila di persone che dalla Grecia tentavano di entrare in Macedonia. Donne con visi appassiti tenevano in braccio bambini semi-addormentati, mentre gli uomini – carichi come muli – portavano sulle spalle ciò che restava della loro ex vita: vestiti spiegazzati, qualche resto di cibo, un paio di foto, giusto per ricordare chi si è stati.
Erano siriani, afgani e pachistani che stavano scappando dalle loro terre travolte da guerre e povertà. Sono rimasto immobile qualche minuto, poi ho visto una donna sfinita avvicinarsi a me col marito e i tre figli e senza pensarci un attimo ho spalancato la portiera della mia auto.
La famiglia stava per salire quando il rumore di un clacson ha fermato tutto.
Non li puoi caricare! E’ reato!– mi urlò un taxista.
Reato? E per cosa? – chiesi io meravigliato.
L’hanno detto alla frontiera: è favoreggiamento all’immigrazione clandestina!
E tu come mai sei arrivato sino alla frontiera? A far che?– gli chiesi sospettoso.
Senti, io ti ho avvisato, poi fai come vuoi!– e scomparve sgommando.
La famiglia nel frattempo si era allontanata impaurita e camminava veloce verso il nulla.
Sono rimasto dentro l’auto per un po’ quando un’immagine banale su Facebook mi ha colpito: una ragazza in bicicletta. Mi si è aperto il cielo! Ho capito che con il denaro che mi era rimasto avrei potuto comprarne diverse usate e distribuirne ai primi che avessi incontrato: sarebbero arrivati alla frontiera in modo più agevole e veloce.
Sono tornato indietro verso la capitale. Sapevo dove trovarne: al mercato delle pulci in zona Stadio.
Ho comprato venti bici e le ho caricate sull’auto. Tornato alla frontiera, in cinque minuti le ho distribuite. Ho ricevuto dei sorrisi, qualcuno ha pianto.
Ho fotografato i migranti in bici e condiviso tutto con un post sui social.
Il post ha fatto in breve il giro d’Italia: centinaia le condivisioni e donazioni per oltre 2.500 euro che ho promesso di consegnare ai destinatari non appena fossi tornato là, al centro dell’inferno. Centinaia di persone mi hanno contattato e – lo ammetto- è stato emozionante: senza volerlo sono riuscito a sensibilizzare esseri umani che fino a poco prima non conoscevo e di cui ignoravo l’esistenza.
Da lì le iniziative hanno preso forma una dopo l’altra: nello stesso anno sono partito alla volta del confine serbo-macedone, mi sono fermato a Tabanovce (a nord della Macedonia) al confine con la Serbia. Ho portato con me cibo e medicine che ero riuscito a racimolare nei mesi addietro con le mie uniche forze.
Nell’aprile del 2016 è partita la prima carovana umanitaria: siamo arrivati a Salonicco con un furgone carico di beni da distribuire, tra cui vestiti e giocattoli.
A dicembre siamo tornati in otto per portare medicine a Idomeni che era allora il più grande campo profughi della Grecia, la Dachau dei nostri giorni, come l’aveva definito Panagiotis Kouroublis, l’allora Ministro dell’Interno.
Ad agosto 2017 è partita la terza carovana: abbiamo fatto tappa ad Atene e lavrio. Poi è stata la volta di Chios : vedere tutte quelle persone – non profughi ma esseri umani prima di tutto -ingabbiate in tende di fortuna, con una mezza speranza di passare il confine ed entrare nel’Europa che conta, non mi faceva dormire la notte.
Nei mesi scorsi Stay Human è stata promotrice di una bella iniziativa riguardante una piccola neonata curda, Nza, a cui era stata diagnosticata la tetralogia di Fallot, una cardiopatia congenita non curabile in Iraq dove era nata.
L’avevano subito data per spacciata a causa di quel difetto multiplo che comporta una ridotta ossigenazione del sangue. I genitori, molto giovani, non si sono persi d’animo e hanno deciso di partire alla volta dell’Europa per poterla curare. Sono arrivati facilmente in Bielorussia ma da lì l’Europa è apparsa loro un miraggio: sono rimasti bloccati per mesi assieme a centinaia di altri migranti perché il confine polacco era ed è tuttora sbarrato. La rotta balcanica è da tempo davanti ai nostri occhi ma immaginarvi una bimba malata è molto difficile!
Hanno provato e riprovato…Era una corsa contro il tempo.
Attraverso una rete di volontari, attivi in Polonia, ho ricevuto una segnalazione: non potevamo restare inermi, ogni minuto sarebbe potuto essere l’ultimo!
Attraverso i nostri agganci nazionali ed internazionali abbiamo contattato il Ministero degli Affari Esteri, l’Ambasciata d’Italia a Minsk e portato il caso all’attenzione dell’Azienda Ospedaliera dei Colli il cui direttore, Maurizio Di Mauro, ha autorizzato l’intervento umanitario.
In possesso di tutti i referti medici, siamo riusciti ad ottenere una delibera dalla Regione Campania che si è impegnata al pagamento dell’intervento, di tutte le cure per la piccola, compreso vitto e alloggio per tutta la famiglia per i successivi 45 giorni (il tempo del visto per motivi medici).
Poi abbiamo lanciato una raccolta fondi per l’acquisto dei biglietti A/R per la bimba e i genitori, nonché la disponibilità di un interprete a disposizione  per ogni occorrenza.
Tanta gente si è mobilitata.
E’ stata operata con successo all’ospedale Monaldi di Napoli e ora sta bene.
A chi mi chiede come mai sento il bisogno di mettere la mia vita a disposizione di quelli che non hanno voce, rispondo che lo faccio anche perché sono io stesso figlio di rifugiati.
Non eravamo ancora entrati negli anni Novanta quando mio padre prese una decisione inaspettata: lasciare l’esercito di cui faceva parte con un ruolo di tutto rispetto e tentare l’avventura in Italia (la Jugoslavia avrebbe iniziato di lì a poco un lento ed inesorabile sgretolamento politico, economico e sociale, poi confluito in diversi anni di guerra atroce).
Il viaggio fu organizzato dai cosiddetti trafficanti di uomini sulla base di un copione prefissato, cui si attenevano scrupolosamente.
Era composto di tre fasi. Durante la prima un furgone ci portò dalla Macedonia al confine estremo della Serbia, approfittando dei pochi controlli alla frontiera e di qualche militare distratto. Poi a tutta velocità verso la Croazia, piuttosto compiacente nei confronti dei furgoni macedoni che ogni notte passavano da quelle parti senza abbassare i finestrini.
Alla periferia di Zagabria iniziava la seconda fase: si scendeva dal furgone e ci si incamminava di notte, passando per le colline per aggirare i controlli, attraversando a piedi la Croazia. Erano cinque ore di cammino ininterrotto, prestando attenzione a dove mettere i piedi, senza parlare, perché ogni parola sarebbe stato un abuso di fatica. Io avevo diciotto mesi e stavo in braccio a mia madre, appena diciottenne.
Il furgone ricompariva al confine croato-sloveno: caricò i miei che attraversarono così la Slovenia fino alla frontiera italiana, la nostra America.
Per ripagare i trafficanti, i miei genitori hanno impiegato quindici mesi chiedendo l’elemosina tutto il giorno all’entrata del cimitero di Nola (la nostra prima destinazione nel Mezzogiorno) che è stato il mio parco-giochi fino a quattro anni.
La minaccia di un rimpatrio per diserzione militare e immigrazione clandestina ci ha inseguito per anni, anche quando le cose hanno cominciato ad andare meglio con l’adozione della cosiddetta legge Martelli che ha legalizzato i profughi (se in possesso di un lavoro). Quella sensazione si era incollata alle nostre anime e non voleva più lasciarci. Forse era più una sensazione che altro, ma è vissuta in noi per molto tempo.
Ho scoperto di essere uno zingaro a sei anni, il primo giorno di scuola, quando i genitori dei miei compagni hanno fatto un presidio davanti all’Istituto scolastico perché non volevano un Rom in classe. Mio padre – che mi accompagnava – aveva indossato la camicia bianca per presentarsi nel migliore dei modi ma è valsa a poco!
Come se un bambino potesse infettare tutti gli altri perché non proviene dallo stesso Paese o porta addosso vestiti di fortuna! In effetti, si vedeva lontano un miglio che venivo da un campo rom dove ho vissuto per sedici anni della mia vita, praticamente la metà!
Incontrai una maestra eccezionale di nome Antonietta ed in terza elementare conoscevo già tutte le capitali degli Stati del mondo. Ciononostante, furono promossi anche tutti gli altri rom che frequentavano la scuola, anche quelli che non avevano mai preso una penna in mano.
Il preside ci voleva fuori dalle sue classi, voleva eliminare qualsiasi traccia del nostro passaggio, senza soffermarsi sul fatto che i ragazzini più pericolosi erano i figli dei boss di quartiere: arrivavano a scuola quando volevano, mettevano i piedi sul banco ed erano anche capaci di leggere un fumetto senza alcuna remora mentre si faceva lezione. Ragazzi pieni di odio, sempre alla ricerca di qualche faccia da spaccare, in sella ai loro motorini truccati…Se qualche insegnante osava protestare, un paio di ruote tagliate… e tutto tornava come prima!
Emarginazione: questo è il termine con cui definisco la mia adolescenza. Vivevamo in perenne assenza di noi stessi: ci sentivamo completamente esclusi dalla vita sociale.
In tanti anni non ho mai avvertito da parte di alcuno il minimo sforzo per risalire alle origini del mio popolo e capirne qualcosa! Siamo diversi per usi e costumi, è vero, ma l’odio che c’entra?  Ci detestano fin dal Medioevo, disprezzandoci, pensando che le nostre origini siano una minaccia per la sicurezza, ma non è mai stato così! Negli ultimi cento anni, la differenza tra i Rom e gli altri si è accentuata ancor di più, diventando un solco così profondo da permettere solo ai luoghi comuni di restare a galla.
Alcuni anni fa, Matteo Salvini  (allora Ministro dell’Interno) disse che avrebbe fatto un censimento dei Rom in Italia e che ‘purtroppo quelli italiani ce li dobbiamo tenere!’
Mi sono così arrabbiato che sono andato subito da un avvocato e l’ho denunciato la stessa sera per incitazione all’odio.
La notizia è rimbalzata in tutt’Italia e Carlo Albè (performer e scrittore indipendente come vuole essere definito) mi ha voluto conoscere e ha scritto un libro su di me e sulla mia storia. Si intitola Gelem Gelem, come il nostro Inno internazionale.
Da anni facevo l’operaio in fabbrica ma mi sarebbe piaciuto occuparmi a tempo pieno di migranti, come facevo nel tempo libero e durante le ferie. Mesi fa ho preso coraggio e ho bussato alla porta di Eurolexservizi srl, un’ impresa sociale che gestisce diversi centri di prima accoglienza per migranti nelle province di Pesaro e Ancona e da allora lavoro lì.
Ci occupiamo di migranti che arrivano in Europa attraverso la rotta balcanica e soprattutto dal mare, da Lampedusa, oltre che di ucraini che stanno giungendo sempre più numerosi.
Ho ricevuto molto dall’Italia e ricevendo si impara a dare.
Paola Cecchini

 

Paola Cecchini

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