Un gigante dai piedi d’argilla

Un gigante dai piedi d’argilla
Fonte immagine: Wikipedia Commons via Kremlin.ru

di Donatello D’Andrea

Le difficoltà incontrate dalla Russia durante l’avanzata in Ucraina – dal fallimento della guerra lampo al disastro logistico – hanno convinto gli analisti a rivedere le capacità belliche dei russi e a concentrarsi su uno spettro d’analisi più ampio, cioè sulle problematiche interne di un Paese che è forse il più fulgido esempio di “gigante dai piedi d’argilla”.

La Russia è un Paese che da almeno vent’anni sta affrontando una serie di problemi che mettono in forte rischio il suo futuro. I piedi di argilla si stanno progressivamente sgretolando a causa di una crisi demografica lancinante, dello squilibrio economico, povertà diffusa, di un difficile rapporto con la modernizzazione e una ampia fuga di cervelli.

Pur essendo il Paese più grande sul globo terraqueo, ha una densità abitativa bassissima (9 persone per kmq) e una popolazione che dal 1991 ad oggi, complice lo sfaldamento dell’URSS, è passata da 290 milioni di abitanti a circa 140 milioni. Un dato che non è assolutamente confortante se rapportato con i numeri dell’emigrazione e con la fuga dei cervelli. Ben prima dello scoppio del conflitto, la Russia aveva conosciuto un esodo che raggiunse il suo punto più alto nel 2014, quando quasi 400mila persone lasciarono il Paese. Con la guerra le cose sono peggiorate, nelle prime quattro settimane sono state 200mila le persone che si sono trasferite altrove, di cui 70mila lavoratori nel settore tecnologico. Si tratta di una perdita ragguardevole che priva la Russia di forza lavoro, know how tecnologico e di dinamicità produttiva.

A conferma del timore che altre persone del settore lascino la Russia, il governo ha deciso di privarli del servizio militare e ha offerto loro numerosi vantaggi sui mutui e incentivi alle aziende per trattenerli in Russia.

Il calo è anche demografico. La popolazione naturale, cioè la cifra che conta le morti e le nascite registrate, è diminuita di quasi un milione di unità tra ottobre 2020 e il 2021. È forse la più netta contrazione da 20 anni a questa parte. Si tratta di numeri che lo stesso Putin ha definito “inquietanti”. Un calo che produrrà conseguenze anche sul comparto militare dato che la Russia ha sempre sopperito alle difficoltà tecnologiche con la forza dei numeri.

Si tratta di una situazione che incide ovviamente sulla produttività economica, fiaccata dallo storico e conflittuale rapporto con la modernizzazione. Perennemente sospesa tra modernizzazione e declino, la Russia fatica ancora a risolvere i problemi fondamentali che ne ostacolano lo sviluppo nell’ambito politico così come in quello economico e sociale. L’eccessiva dipendenza dal commercio dei combustibili fossili, l’incapacità di diversificare l’economia, la pervasiva corruzione, gli squilibri regionali e la già citata crisi demografica pregiudicano seriamente le potenzialità di crescita della Russia. Il nodo cruciale, però, sembrerebbe essere essenzialmente politico e non economico. Come la dirigenza sovietica, anche quella attuale della Russia parrebbe privilegiare la stabilità politica del Paese rispetto al suo sviluppo. Paradossalmente tale stabilità del regime di Putin si è tradotta in stagnazione economica.

In altre parole, il problema principale della Russia del nuovo millennio, che pur aveva conosciuto un rapido sviluppo nei primi anni duemila, è costituito dalla perdurante difficoltà di dare luogo a un efficace processo di modernizzazione politica ed economica, suscettibile di metterla al passo con le realtà avanzate del continente europeo. Putin ha ereditato un’economia in pessime condizioni ed è riuscito a stabilizzarla e farla crescere grazie anche alle congiunture economiche successive che hanno fatto crescere i prezzi di gas e petrolio. In dieci anni (1994-2008) il PIL russo è cresciuto del 94% e anche i redditi hanno subito un rimbalzo positivo. Dopo, però, è arrivata la stagnazione. La crisi economica ha colpito duramente la Russia e ha mostrato al mondo (e al suo governo) come un modello di sviluppo basato interamente sulla vendita delle materie prime non possa funzionare.

Nel 2014 Mosca ha dovuto fare i conti anche con il peggioramento dei rapporti con l’Occidente e in particolare con l’UE dopo anni di normalizzazione e di stabilizzazione dei rapporti grazie alle politiche portate avanti da Angela Merkel e dalle istituzioni continentali a trazione tedesca. L’invasione della Crimea ha influito negativamente sulla disponibilità delle aziende estere a investire in Russia e ha creato un clima di sospetto – che per ovvie ragioni perdura tuttora – il quale si è tradotto in periodiche espulsioni di funzionari russi dai Paesi dell’Europa occidentale. Anche l’improvviso crollo del prezzo del petrolio ha avuto le sue drammatiche conseguenze: da allora i redditi russi sono in costante discesa.

Le prospettive di crescita di lungo periodo sono state sacrificate in favore di una ossessiva ricerca della stabilità politica e geopolitica. Una stabilità che coincide con il controllo della società e l’autoritarismo – ribattezzato ufficialmente come “democrazia guidata“. Inevitabilmente una situazione politica del genere si traduce in stagnazione e parallelamente la ricchezza di risorse energetiche genera dinamiche di corruzione che dall’apparato statale si estendono a quel settore privato che dipende dal governo centrale. La corruzione si traduce in inerzia e nell’incapacità di affrontare le cicliche e necessarie riforme economiche.

La Russia è un gigante dai piedi d’argilla. Dalla crisi demografica alla bassa natalità, passando per l’emigrazione della forza lavoro più dinamica, cioè quella del settore tecnologico, e le difficoltà di approntare un processo di modernizzazione economica che scardini la stagnazione. Si tratta di elementi che incidono incredibilmente sul futuro del Paese. Nel caso interno, il rischio implosione è dietro l’angolo, mentre sul fronte internazionale queste difficoltà non possono fare altro che favorire un ridimensionamento del peso politico di Mosca.

Questa situazione potrebbe avere serie conseguenze perché la Russia deve confrontarsi con competitor che appaiono più dinamici e agguerriti. La Turchia insidia l’influenza russa nel Nord Africa e in Medio Oriente, mentre nelle lontane regioni siberiane la Cina ha intensificato la sua migrazione economica (prima agricola ora industriale) e la potenza politica del dragone ha iniziato a farsi sentire anche nelle ex repubbliche sovietiche. Lo spazio vitale della Russia si sta rapidamente rimpicciolendo e le speranza di costituire il terzo polo tra Washington e Pechino si stanno assottigliando.

Il rapporto con la Cina appare uno dei punti più oscuri e ambigui della politica estera di Mosca. I due Paesi non hanno alcuna alleanza militare da condividere ma soltanto un partenariato strategico derivante dalla comune rivalità con gli Stati Uniti. I cinesi “apprezzano” la grande e generosa disponibilità di materie prime, le quali sono vitali per un Paese “energivoro” come la Cina. La collaborazione però si interrompe qui. Dal punto di vista militare Pechino preferisce la bassa intensità – d’altronde per Sun Tzu “l’arte suprema della guerra è quella di sottomettere il nemico senza combattere” – mentre la Russia ha scelto una strada più tortuosa e compromettente. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: Pechino non ha apprezzato l’avventatezza della Russia e ha assunto un atteggiamento di equidistante neutralità pur riconoscendo, più per esigenze pratiche che per appoggio diplomatico, delle ragioni a Putin.

Nei confronti dell’Unione Europea le cose sono altrettanto complesse. Pur se il 77% del territorio russo si trovi in Asia, da sempre la Russia rivendica un’anima europea. Nonostante ciò, nel corso degli anni, i governanti europei hanno sempre teso ad escludere il gigante dal gioco delle grandi potenze continentali. I motivi furono i più disparati, dal timore di coinvolgere una potenza troppo grande per i piccoli staterelli europei in un gioco troppo pericoloso al timore di innescare, con la nascita dell’URSS, una rivoluzione comunista anche nel cuore dell’Europa. Dopo la Guerra fredda e il ridimensionamento del suo peso politico, l’atteggiamento di supponente tracotanza assunto da europei e americani – che hanno tutto l’interesse affinché la Russia si allontani dal continente europeo – hanno innescato un processo di progressivo “spostamento” verso l’Asia. Con la guerra in Ucraina e l’interruzione dei rapporti diplomatici (e sanzioni su sanzioni) hanno assestato un colpo, forse definitivo, alle speranze di chi credeva che Russia ed Europa potessero parlare, prima o poi, “una sola lingua”.

Ad oggi la Russia vive una situazione difficile sia sul fronte interno che esterno. Il futuro è una grande incognita e la sensazione prevalente è che questi piedi d’argilla siano destinati a cedere sotto il peso della storia.

Donatello D'Andrea

Classe 1997, lucano doc (non di Lucca), ha conseguito la laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali e frequenta la magistrale in Sistemi di Governo alla Sapienza di Roma. Appassionato di storia, politica e attualità, scrive articoli e cura rubriche per alcune testate italiane e internazionali.

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