Gli spaesati

Gli spaesati

CRONACHE DEL NORD TERRONE

Di Enzo D’Antona


Negli anni Settanta cominciammo ad andarcene un po’ per volta. Dopo il diploma e i primi anni di università molti di noi si accorsero che non c’erano alternative. Per trovare lavoro bisognava fare la valigia, non più di cartone, e andare al Nord. I primi furono i vincitori di concorso. Poste, Ferrovie, cancellerie di tribunali, uffici pubblici statali, ma anche provinciali e comunali. La speranza, più che altro l’illusione, era di rimanere qualche anno fuori casa e infine riuscire a ottenere un trasferimento in Sicilia. Poi toccò a una parte consistente di laureati. Anche per loro concorsi pubblici o domande di insegnamento e via, sparsi ai quattro angoli di quella che poi – ma allora non lo sapevamo ancora – sarebbe diventata la Padania.

Nei ventuno anni che vanno grosso modo dalla strage di piazza Fontana all’inizio di Tangentopoli, tra il 12 dicembre 1969 e il 17 febbraio 1992, c’è stato per la prima volta nella piccola storia della Sicilia rurale l’esodo di massa di giovani diplomati e laureati. L’inizio dell’emigrazione borghese. Oggi la chiamerebbero anche fuga di cervelli. Ma non era una fuga, assomigliava di più a una deportazione. In quelle partenze c’era infatti un che di obbligatorio, di inevitabile, era un destino che incombeva su di noi. 8 Gli spaesati Così era stato sempre. Per i poveri contadini che già negli ultimi decenni dell’Ottocento erano saliti sui piroscafi per l’America. E poi nel secondo dopoguerra per il sottoproletariato, il famoso popolino, tagliato fuori da ogni prospettiva che assicurasse alla famiglia un futuro in loco. E così, imprevedibilmente, è stato anche per la generazione cresciuta negli anni dell’istruzione di massa, del boom economico, della rivoluzione sessantottina.

Nelle pagine seguenti ci sono le storie di Ghezio, Crocifisso, Fernando, Liborio, Gnazio, Aurelio, Milziade e Artemio, Silvestro e Gianrosario. Ragazzi nati in un paese della provincia di Caltanissetta – il nome immaginario è Iudeca – e cresciuti in una palazzina popolare che a quei tempi e in quei luoghi pur non essendo il massimo della raffinatezza era però il fronte avanzato della modernità. Per esempio tutti avevano l’acqua in casa o quanto meno i rubinetti, circostanza non scontata nella Sicilia interna alle soglie degli anni Sessanta. Le storie sono tutte vere anche se per rendere non riconoscibili i singoli personaggi le ho in qualche misura rimescolate.

E il paese si sarebbe potuto chiamare Riesi – il mio amato paese di nascita – se non fosse che Iudeca abbraccia anche altre vite vissute e ascoltate nel corso di tanti anni in altri luoghi. Ma questo non è un romanzo e neppure un saggio di antropologia. Diciamo che ho voluto raccontare a modo mio attraverso la memoria, e nel contesto dei grandi fatti che hanno segnato vent’anni di storia italiana, lo spopolamento e in qualche caso la desertificazione di una parte di 9 Introduzione Sicilia ormai forse irrimediabilmente condannata al sottosviluppo e all’abbandono. Le partenze da Iudeca, dalla Sicilia e da tutto il Sud infatti continuano, con i ventenni e i trentenni di oggi che ancora cercano al Nord spazi di sopravvivenza economica. Una semplice cifra ci spiega con crudezza la situazione: ho stimato, in base ai dati Istat, che ogni ora di ogni giorno e di ogni notte e nell’arco di tutto l’anno e di ciascuno di questi anni ci sono almeno sei giovani (di cui due laureati) che lasciano definitivamente il Sud e portano al Nord nuova linfa di energia, volontà e intelligenza. Uno ogni dieci minuti.

Ma non è solo questo. In ciascuna vicenda dei ragazzi di Iudeca c’è – importantissimo – il rapporto ancora irrisolto tra meridionali e settentrionali. Il razzismo più o meno esplicito ‒ talvolta mascherato da scherzo, ma certo per niente divertente – con cui si scontra l’immigrato al Nord. La vecchia abitudine di chiamarci terroni, parola sulla quale presumo che gli emigrati precedenti, contadini trasformati in operai, abbozzassero sperando col tempo di farsi accettare, aveva in quegli anni un offensivo contenuto dispregiativo. Ma questa era solo la parte esteriore, diciamo pure estetica, del razzismo. Sotto sotto c’era anche – nella cultura di massa settentrionale e facendo le dovute eccezioni – una sorta di odio represso che ogni tanto veniva fuori all’improvviso anche in contesti insospettabili. Cioè anche tra persone colte, moderne, civili, oserei dire pure di sinistra. Un vaso scoperchiato il quale, colpa anche della Lega di Bossi, chiunque lo volesse si è poi sentito in diritto di nutrire legittimamente sentimenti anti-meridionali e manifestarli apertamente.

Come se noi, e ciascuno di noi 10 Gli spaesati personalmente, fossimo l’origine di tutti i mali del Nord e dell’Italia intera. La voglia di ribaltare tutto, di mandare affanculo i settentrionali-polentoni qualificandoli come un corpo sociale unico e facendo di tutta l’erba un fascio, in certi momenti era fortissima. Altri tempi. Ormai nelle grandi città del Nord – Genova, Torino, Milano, quelle in cui si svolgono i fatti narrati in queste pagine – meridionali e settentrionali sono indissolubilmente mescolati e accomunati in un unico destino il cui segno distintivo principale è purtroppo l’egoismo. Noi eravamo gli spaesati. Gli immigrati extracomunitari di oggi, i nuovi meridionali e i nuovi terroni, sono combinati molto peggio. Ma non so. Ho come la sensazione che la fine di questa storia la scriveranno loro.

Gallery Giovanni Franco

Redazione Radici

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