Libano, Yimer Banchi (Egna Legna): “Lavoratrici etiopi sono prigioniere”

Libano, Yimer Banchi (Egna Legna): “Lavoratrici etiopi sono prigioniere”

Per la fondatrice ong: “vogliono andarsene, non hanno soldi né libertà”

“Vogliono tornare a casa perché con il Covid-19 e la crisi economica in Libano è cambiato tutto ma non il sistema della ‘kafala’, una moderna schiavitù che umilia e toglie pure il passaporto”. Yimer Banchi, fondatrice dell’ong Egna Legna, parla con l’agenzia Dire delle collaboratrici domestiche etiopi a Beirut.

Secondo le stime dell’ambasciata di Addis Abeba, sono circa 250mila e costituiscono di gran lunga la comunità nazionale più numerosa in questo settore di occupazione. Egna Legna è al loro fianco, sostenendole con consulenze e aiuti, grazie a uffici in Libano, in Etiopia e in Canada, facendo tesoro dell’esperienza di chi quegli abusi li ha subiti sulla propria pelle. “Ho lavorato a Beirut per anni, cambiando molte case e dormendo anche su un materasso per terra in balcone senza poter entrare nemmeno quando pioveva” ricorda Yimer, fondatrice dell’organizzazione, ora residente a Montreal. “Adesso mi rendo conto che la situazione è perfino peggiorata: prima la crisi economica, poi la pandemia, infine il crollo della lira libanese e i black-out”.

Secondo Yimer, Egna Legna ha permesso i rimpatri di almeno 600 lavoratrici. Sono molte di più, però, coloro che vorrebbero tornare in Etiopia senza poterlo fare. Con la crisi economica che ha colpito la classe media e la maggioranza della popolazione scivolata in una condizione di povertà, gli stipendi spesso non sono pagati. Rientrare in patria è quasi impossibile perché mancano i soldi per i biglietti aerei e, come sempre, i passaporti li tengono i padroni di casa.

“Molti problemi derivano dal fatto che per le etiopi è vietato entrare in Libano” sottolinea Yimer, in riferimento a norme introdotte nel 2008 dal governo di Addis Abeba. “Le ragazze passano allora dallo Yemen o dal Kenya e arrivano illegalmente, con diritti pari a zero”. Ora, però, con l’avvitarsi

della crisi e la pandemia, i flussi sono invertiti. “In tante vorrebbero tornare, in tante hanno bisogno, per il cibo, le medicine, la cura dei figli” dice Yimer: “A partire dal 2017 abbiamo fornito assistenza in vario modo, dalle somme in denaro ai farmaci, a oltre 5mila ragazze”.

Alcune di loro a Beirut è possibile incontrarle negli “shelter“, i rifugi predisposti dalla Caritas, visitati dalla Dire alcune settimane fa. Ha 20 anni, Almaz, e un figlio che non vede da una vita. Come migliaia di ragazze dei villaggi, in Libano l’hanno portata i “broker”, gli agenti di intermediazione, aguzzini al lavoro tra Addis Abeba e Beirut. Alle etiopi va peggio che alle nepalesi e alle filippine per via del divieto governativo che le rende “clandestine” dal primo giorno. Almaz ha lavorato come badante di una donna anziana, poi è passata di casa in casa a fare le pulizie ma i soldi se li sono tenuti sempre i proprietari o se li sono presi i “broker”. È la legge della “kafala”.

Lei ha provato a salvarsi dopo essere stata chiusa in una stanza cinque mesi, ostaggio con altre dieci ragazze, un materasso per terra e la porta sbarrata. Promettevano di comprarle il biglietto per l’Etiopia ma Almaz non ci ha creduto, ha rifiutato nuovi lavori ed è stata picchiata.
Egna Legna è un’espressione in lingua amarica che vuol dire “da noi migranti a noi migranti”. Tra i suoi impegni c’è quello di sensibilizzazione. “Chi decide di venire a lavorare in Libano corre rischi gravi ed è bene che sia informato prima di partire” sottolinea Yimer. Convinta che sia centrale anche un altro aspetto. “In Libano tutte le organizzazioni etiopi sono dirette da uomini, che rappresentano però appena il 3 per cento della comunità emigrata” dice. “È anche per questo, per poter prendere il destino nelle nostre mani, che abbiamo fondato un’organizzazione al femminile e femminista”.

Redazione Radici

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