Argentina (l’arrivo dei migranti)

Argentina   (l’arrivo dei migranti)

Di Paola Cecchini

Appena sbarcati, i migranti senza chiamata godevano di un momentaneo ristoro nelle Casas de Inmigrantes che i governi sudamericani avevano organizzato a tal fine.
L’Hotel de Inmigrantes di Buenos Aires era molto modesto: consisteva in uno stanzone per cinquecento persone dove i letti – un saccone e una coperta – erano letteralmente accostati l’uno all’altro. Era previsto un corpo di guardia realizzato dagli stessi immigrati ed una cucina. Alla fine del XIX secolo, il cibo era spesso insufficiente.

Nel Nord America, d’altronde, le Casas non erano migliori, tanto che un rapporto di F.T. Lee relativo alla Carolina del Sud, denunciava:
Gli ultimi arrivati sono alloggiati come bestie, coricati su paglia di riso, senza alcuna specie di coperta.
L’Hotel di Buenos Aires assomigliava all’antico mercato degli schiavi:
Arriva un americano, guarda, esamina la qualità della merce e sceglie. Una famiglia è presa da un padrone, un’altra da un altro. Spesso si divide: il padre va con un appaltatore, i figli chi qua, chi là, la madre come mucama o ama de llaves (domestica o governante), le ragazze come bambinaie.

Talvolta venivano affissi avvisi al pubblico e sui giornali, per smaltire la merce che ingombrava l’edificio:
Hotel de Inmigrantes
Per ordine superiore si avvisa il pubblico che questo
stabilimento tiene costantemente italiani di ogni
genere di lavoro, giornalieri, agricoltori, servitori,
serventi e ragazzi d’ambo i sessi.
Per domande, rivolgersi alla commissione generale
di Immigrazione 276 Via 25 di agosto.
Juan Cavallo
Incaricato

L’asilo era concesso per pochi giorni, il tempo necessario a trovare un lavoro, però ‘se il collocamento è lungo e le ragazze delle famiglie albergate sono bellocce, non si sta a sottilizzare e sono mantenuti anche per un mese e più’, scriveva un cronista di fine Ottocento.
Il collocamento non era sempre facile e specialmente in Argentina, furono commesse delle vere cattiverie ai danni di immigranti ignari: per compiacere estancieros influenti o favorire proprietari di terre lontane e spopolate, furono spesso avviati coloni in luoghi dove le condizioni di vita erano impossibili.
Ecco quanto racconta in proposito Adriano Colocci, già direttore del Corriere Adriatico:

Talché molti, che credevano di andare nelle fiorenti colonie di Santa Fe o di Rosario, sono stati messi in un vagone e dopo un viaggio lunghissimo, ignari dei luoghi e della meta, si sono trovati sbalzati nelle fredde e sterili terre di Patagonia e del Chubut, oppure a morire di ciuccio (febbre intestinale) nelle piantagioni di zucchero di Tucumán.
Che potevano fare? Non conoscono la lingua, non conoscono la geografia. E poi li rinserrano nei vagoni, tanto che una volta, sulla linea di Córdoba, appiccatosi il fuoco ad un treno di immigranti italiani, morirono tutti carbonizzati dentro i vagoni senza trovare scampo’.

Pensare che il viaggio, pur difficoltoso, rappresentasse la parte più difficile dell’avventura, è pura ingenuità:

Tra la maggioranza degli emigranti vige la credenza che pel solo fatto di emigrare si sia risoluto il problema della vita; invece emigrare significa tutt’al più scriverlo su una pagina bianca. Di tutte le iniziative umane è la più complessa e difficile; non permette il successo che ai risoluti, agli energici, ai pazienti. Solo la leggenda le consente gli aspetti più lusinghieri…
La vita americana appare da lungi come esistenza edenica in contrade soleggiate dove le foreste vergini pongono la lussuria del loro verde…Codeste false allucinazioni dei lettori del Robinson svizzero saranno solo comprese dall’emigrante quando sbarca sul suolo americano. Allora comprenderà che nelle società giovani, più ancora che nelle solitudini, bisogna contar solo su sé stesso, produrre tutto da sé stesso. Ciò significa colonizzare’.

Non tutti, però, avevano la stoffa del colonizzatore:

Al colonizzare una gran parte degli emigranti non è minimamente adatta. Si dichiarano agricoltori all’Agenzia di emigrazione in Genova e poi si scopre che non hanno mai saputo che cosa sia trattar la marra e coltivare un vaso di gerani. Ora, credere che con gli artigiani, con gente di città, si possa fare dei buoni coloni, dei veri pionieri, degli squatters, è grande errore. In generale i creoli li credono pigri, capricciosi, malcontenti, irregolari, dalle facili speranze e dall’irrequietezza di carattere e sono quindi guardati con diffidenza […] Almeno il 50% di quelli che scendono all’Hotel dicendo di voler andare al campo non ci vanno, restano in città, mandano i figli a vendere i giornali, fiori e fiammiferi o ad accattare ed essi si acconciano miseramente a pulire le scarpe, vuotare i cessi oppure a fare i changador (facchino) ai nuovi padroni.
I migliori, i privilegiati, quelli che vengono dall’esercito italiano e imparano la lingua, possono aspirare ad essere vigilantes e finiscono col nobile mestiere di sbirro’.

Ed i veri coloni?

‘I veri coloni, quelli che erano agricoltori davvero in Italia, non si fermano a marcire nelle città, ma vanno al campo e se sono avveduti, procurano di compiere in breve tempo il passaggio da salariato a proprietario…Per me la grande superiorità dell’America sull’Europa non sta sempre sulla rimunerazione maggiore al lavoro ugualmente offerto. L’utile grande per l’agricoltore non è cambiarsi da contadino italiano in contadino argentino, continuando sulla stessa routine o cambiando solo di padrone. Per me l’immigrante dovrebbe cercare in America quello che non aveva in Europa e cioè la proprietà del suolo’.

Non mancavano coloro che speravano in facili riscatti:

Sul primo, appena scesi, hanno quell’aria di vigore delle vecchie razze, di decisione degli avventurieri, d’intelligenza degl’intraprendenti. Sotto quell’aria di superiorità c’è un vinto del vecchio mondo che chiede al nuovo e ne aspetta una riparazione…
Erano partiti d’Europa pieni di bollenti ambizioni, scontenti del casellamento che di essi aveva fatto la vecchia società europea, rigorosamente ristretta nelle sue ambizioni. Avevano accusato il destino e la mediocrità della loro fortuna; e sentendo dentro loro delle aspirazioni vaghe, avevano incaricato l’America di realizzarle.
Ed entrarono, cuore e borsa leggeri, in questa nuova via, muniti di un diploma e di una lettera di raccomandazione. Hanno creduto che una buona educazione, una istruzione solida fossero di qualche valore in una società nuova; e che alla peggio avrebbero potuto insegnare agli altri ciò che essi stessi già sapevano.’

Ma, ahimé! La situazione era ben diversa perché

in America non si trova compratore pel loro bagaglio classico. L’unica scienza che là si impara è la scienza della vita e l’Europa deve apprenderla, non insegnarla, in un paese dove i bambini a 12 anni ne sanno tutti i segreti e a 15 già dispongono d’un voto politico. Di codesti laureati e diplomati ve n’è d’ogni età fra gli immigranti.
Codesta categoria abbraccia dottori in legge, ex notai, ex professori, industriali rovinati, antichi impiegati destituiti, ufficiali e nobili spiantati.
Taluni trovano un’occupazione modesta, più umile sempre di quella che avrebbero avuto e che non avrebbero accettato a casa loro. E questi sono i meno infelici’.

E gli altri?

Gli altri, ubriacati delle loro idee d’avventura e credendo che l’avventura sia la legge del nuovo mondo, vanno cercando l’introvabile, dimenticando che l’America odierna non è quella di cento anni fa e che è tutta governata da quella civiltà che sopprime il caso e chiude gli eccessi dell’avventura. E questi sono i più infelici.
Tra gli infelicissimi bisogna poi aggiungere nei ranghi oscuri degli immigrati gli scoraggiati della prima ora, che vissero vendendo ciò che poterono, conservando solo il vestito invendibile, già troppo grande per le loro membra scarnite, trascinanti le scarpe che non si possono più sollevare perché si congederebbero dal piede.
Questi sono i paria della strada che sotto il nome di attorantes vivono, mangiando chi sa cosa, vivendo chi sa dove.
Alcuni conservano pietosamente una fotografia, fatta in passato, che mostrano perché il confronto si volga in compassione.
Quanti ne ho trovati di questi disgraziati erranti nella strada, martiri di una educazione inutile e di lusso, di un diploma e del classicismo europeo!’

Riporto di seguito alcune testimonianze di marchigiani, che ho raccolto nei distretti della provincia di Santa Fe.
Che ricordano dell’arrivo nel nuovo Paese?

Mariana M. di San Severino (Casilda):


Quando arrivai l’Argentina non mi piacque per niente. Anche il cibo era diverso, mi sembrava che avesse un altro gusto.. Poi non capivo nulla, la lingua era diversa..
Poi eravamo partiti d’estate (il 5 agosto, ricordo) e qui era inverno. All’inizio la mia famiglia lavorò a Campo Tambo.
Io non stavo bene, ero come morta; poi mi portarono alla Confeteria Petrelli (parente di un mio vicino) e il dr. Mancini (ricordo il nome) mi disse che era il cambiamento di aria.

Rosina M. di Cingoli (Santa Teresa):


Quando una arriva, si sente smarrita, non capisce nulla, tutta quella gente al porto! Cercammo mio padre, cercammo, cercammo dappertutto, mia madre piangeva, mio padre non c’era…sapete cos’era successo? Mio padre veniva da Monte Maíz, circa 700 km da Buenos Aires e siccome quel giorno erano arrivate tre navi piene di emigrati, non riuscì a trovarci e tornò in paese. Noi rimanemmo soli, l’Ufficio Immigrazione non ci ricevette perché mia madre era già stata in Argentina una volta. Eravamo soli, al porto, con le valigie, i bauli, con tutto, capisce? Passò un signore che parlava italiano, era in carrozza e ci disse che lì non potevamo stare, che ci avrebbero arrestati e che conosceva un albergo presso cui ci saremmo potuti fermare. Mia madre non capiva una parola e rimanemmo rinchiusi in albergo fino a che non arrivò mio padre. E non le dico l’imbroglio che organizzò per non pagare la somma enorme che dovevamo all’albergatore e che non eravamo in grado di pagare, La prima impressione dell’Argentina fu orribile.

Domenico C. di Loreto (El Trébol):


Qui la situazione era migliore che in Italia. Con la fame che c’era là, qui c’era da mangiare per alimentare tutta l’Europa. Mi colpiva che qui si buttasse il mangiare alla spazzatura essendo ancora in buono stato: mi faceva molto male, perché avevo passato tanta fame e sofferenza.
Mi meravigliò molto quando arrivai alla grande estensione di terra incolta, perché là si lavorava persino il piccolo pezzo di terra adibito a giardino…

Armando S. di Civitanova Marche (Pergamino):


A papà no le gustava Mussolini y mia mamma no opinava. E qui in Argentina o trovato Perón. Per me era simile a Mussolini solo che Perón faceva tutto con la risa, Mussolini serio, ossia Mussolini dava le bastonate e Perón no, ossia le bastonate le dava de notte piano piano. L’osse rotte lo stesso. Perón ha insegnato a la gente a lavorá male, a no laborà a ribellasse a lo padrò i adesso lo pagamo tutti, però a dato tutto agli operai e gli ha dato tutto degli altri, lui gli ha dato tutto. Qui nel banco centrale dell’Argentina stava pieno de oro che no se potiva camminà.

Paola Cecchini Redazione Radici

Redazione

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