Tutti i numeri sugli italiani all’estero

Tutti i numeri sugli italiani all’estero

 

C’è un’altra Italia che vive al di fuori dei nostri confini, con oltre 50 milioni di italiani tra espatriati e nati fuori dall’Italia nel corso dell’ultimo secolo. E l’emigrazione dal nostro Paese continua ad avere numeri consistenti. Da dove si parte? Dove si va? E quali ragioni incidono di più sulla decisione di abbandonare il Paese?

Non solo i ben noti e tanto discussi cervelli in fuga. Anche persone di mezza età e addirittura anziani, con diverse prospettive e obiettivi per una nuova vita intrapresa altrove. Siamo sempre stati, lo sappiamo bene, grandi migratori se è vero che secondo Istat e il Ministero degli Esteri sostanzialmente c’è un’altra Italia che vive al di fuori dei nostri confini, con oltre 50 milioni di italiani tra espatriati e nati fuori dall’Italia nel corso dell’ultimo secolo, anche se quelli che hanno mantenuto la cittadinanza italiana sono poco più di 5 milioni.

Ed emigriamo ancora molto, con flussi consistenti. Le cifre fornite dall’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, gestita dai singoli Comuni di origine e dai consolati dei paesi di destinazione, e quelle di Istat ci dicono che il trend di uscita dal nostro paese è in continuo aumento in queste prime decadi del XXI secolo. E non solo appunto per la tanto discussa e ampiamente controversa questione di chi emigra perché in Italia si fatica a fare ricerca o a trovare un lavoro adeguato a una formazione alta. Se ne vanno anche altri pezzi di popolazione, dalle città e dai paesi più piccoli, da Nord e da Sud, laureati o con titoli di studio medio-bassi, giovani e anziani. E perfino i neo-italiani, quelli che la cittadinanza l’hanno presa da poco. Ma vediamo più in dettaglio.

I dati dell’Anagrafe italiani residenti all’estero, l’Aire, sono stati usati anche dalla Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana nell’annuale Rapporto Italiani nel mondo pubblicato nei giorni scorsi. L’iscrizione all’Anagrafe estera è un diritto-dovere ed è dunque obbligatoria per tutti gli italiani che decidono di vivere in un altro paese per un periodo superiore a un anno e che trascorrono in quel paese almeno 183 giorni l’anno. L’iscrizione dà la possibilità di votare dall’estero, di essere seguiti in tutte le pratiche dai consolati di riferimento, di avere le facilitazioni previste dagli accordi bilaterali tra l’Italia e gli altri paesi sul piano fiscale, in particolare di evitare la doppia tassazione sui redditi e sulle pensioni.

Per contro, l’iscrizione all’Aire comporta la cancellazione dal Sistema sanitario nazionale e quindi la rinuncia all’assistenza del medico di base. Anche se obbligatoria, l’iscrizione non è in realtà fatta da tutti gli italiani che si spostano nel mondo e quindi i dati Aire, per quanto incrociati con quelli di Istat e con le anagrafi dell’Agenzia delle entrate, di Inps e anche degli Stati di residenza, sono da prendere come indicazione, per quanto accurata, di un fenomeno difficile da quantificare con esattezza e precisione.

Quanti italiani scelgono di vivere in un altro Paese

A inizio 2018, erano più di 5,1 milioni i cittadini italiani registrati come residenti in un altro paese, come vediamo dal grafico sottostante, dove è possibile evidenziare, anno per anno, il numero di iscritti dal 2006 in poi. E se il 42,2% delle persone sono emigrate da oltre 15 anni, o addirittura sono nate in un altro paese, il 21% invece ha fatto le valigie solo negli ultimi cinque anni e un altro 17% tra i 5 e i 10 anni fa. Due milioni e 600 mila iscritti sono espatriati mentre altri due milioni circa sono i nati e residenti all’estero. Infine, circa un iscritto su dieci si è reiscritto dopo essere stato cancellato per irreperibilità oppure perché ha acquisito la cittadinanza italiana, per esempio per matrimonio. 

Guardando all’ultima annata di dati disponibili rilevati a inizio gennaio di quest’anno, nel corso del 2017 si sono iscritti all’Aire per ragioni di espatrio, quindi perché se ne sono andati dal nostro paese, quasi 130 mila persone (128.193, per la precisione). Da inizio 2017 a inizio 2018, l’aumento percentuale è stato del 2,7%, piuttosto contenuto, ma se allarghiamo lo sguardo agli ultimi tre anni il tasso è invece aumentato del 6,3% e addirittura, negli ultimi 5 anni, di oltre il 14%. Molto ridotti sono invece i rientri, e i numeri presentati nel rapporto sono comunque il saldo al netto delle cancellazioni dall’Aire.

Dove andiamo in Europa e nel mondo

L’Europa è meta preferita di chi espatria negli ultimi 15 anni. Guardando alle destinazioni degli italiani trasferiti nel corso del 2017, la Germania e il Regno Unito sono senz’altro al primo posto, ma vanno forte anche la Svizzera, la Francia e la Spagna. Il picco di iscrizione ad Aire di persone residenti in Gran Bretagna, particolarmente consistente dal 2016 a oggi, in realtà potrebbe anche essere interpretato con la necessità di dimostrare la residenza regolare da parte dei molti italiani che lavorano lì anche da anni e che temono le conseguenze della Brexit sulle proprie possibilità di rimanere in Gran Bretagna.

Oltreoceano, i paesi più attraenti per i nostri connazionali rimangono il Brasile e gli Stati Uniti. Ancora molti comunque scelgono l’Argentina, un paese dove sentirsi a casa è facile, data l’enorme comunità italiana presente fin da inizio del XX secolo.

Diversa è la distribuzione se invece prendiamo in considerazione tutti gli oltre 5 milioni di residenti all’estero, tra cui appunto gli emigrati di lungo corso. In questo caso, infatti, l’Argentina balza al primo posto, con oltre 800 mila cittadini italiani residenti, seguita da Germania, Svizzera, Brasile e poi Francia, Regno Unito e Belgio. 

La geografia delle destinazioni è cambiata con i tempi, con le opportunità e con la capacità degli altri paesi di offrire condizioni interessanti a chi emigra. Il Belgio, ad esempio, patria di molti italiani nel corso del ‘900 è assai meno presente nelle classifiche del XXI secolo, non rientrando nemmeno tra le prime 25 mete, come vediamo dalla mappa qui sopra. Anche qui però, attenzione, ci sono altri fattori che pesano, come ad esempio il fatto che alla terza generazione in Belgio viene automaticamente acquisita la cittadinanza belga.

Un dato molto evidente è che l’emigrazione verso l’Africa, anche se i numeri di chi si sposta in Sudafrica o in qualche specifica località del Nord Africa sono in aumento, è sostanzialmente inesistente. Dati interessanti sono anche quelli che vedono per ora la Cina meta molto poco frequentata ma da tenere d’occhio. Infatti, incrociando i dati Aire con quelli dell’Osservatorio nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca promosso dalla Fondazione Intercultura vediamo che c’è un crescente interesse da parte degli studenti delle scuole superiori nei confronti della Cina. Nel corso del 2017 poco meno di 300 scuole (279 per la precisione, l’8% di tutte le scuole superiori nazionali) ha attivato l’insegnamento del cinese coinvolgendo circa 17.500 studenti. Altri studi fatti dalla stessa Fondazione indicano che molti giovani studenti italiani considerano il cinese la lingua del futuro e, anche se ci sono differenze territoriali, con più scuole delle regioni del Nord impegnate in questa direzione, si vede anche un aumento nei numeri e nel trend degli studenti che scelgono la Cina per trascorrere un anno scolastico all’estero. Una tendenza che potrebbe tradursi nella scelta, nei prossimi anni, anche di una emigrazione più marcata verso Est.

Da dove partono gli italiani

Oltre alle destinazioni, cambia anche la provenienza. La grande emigrazione dal Sud tipica della prima metà del ‘900 ha lasciato spazio a partenze più frammentate sul territorio nazionale. Così la distribuzione degli oltre 5 milioni di residenti all’estero cambia molto non tanto a seconda della regione di provenienza, come vediamo dal grafico qui sotto, ma anche della dimensione della località o città di appartenenza così come delle opportunità economiche. E naturalmente della presenza o meno, nel luogo di destinazione, di una comunità proveniente dalla stessa origine.

Molto diverso è anche il peso dell’emigrazione sul Comune di provenienza. Più grande la città, in linea di massima, minore l’incidenza percentuale della popolazione residente all’estero rispetto a quella rimasta in Italia. Con molte eccezioni e differenze tra regioni e tra comuni. A puro titolo di esempio, il grafico sottostante mostra quanto è diversa l’incidenza della percentuale di residenti esteri sui comuni più piccoli, quelli con meno di 10 mila abitanti, rispetto alle città con una popolazione tra 10 e 100 mila abitanti e alle città più grandi, oltre i 100 mila abitanti. Oltre alle percentuali è possibile evidenziare anche i numeri assoluti. 

E se ci sono piccoli paesi del Sud ma anche delle province pedemontane del Nord dove ci sono molti più residenti esteri di quanti ne siano rimasti nel luogo di origine, ci sono sostanziali differenze anche tra le città. Tra le prime dieci città di provenienza ci sono Roma, Milano, Torino, Napoli, Genova, Palermo, Trieste, Catania e Bologna e Firenze. Ma mentre in media da queste città se ne sono andati dal 4 al 6% della popolazione, diversa è la situazione per Roma, dove più di un cittadino su 10 è residente all’estero e per Trieste, dove la percentuale arriva al 14%.

Se guardiamo alle regioni, la prima per percentuale di residenti esteri è il Molise, con quasi un terzo dei suoi abitanti iscritti all’Aire, seguito da Basilicata e Calabria (oltre il 20%) e Sicilia, Abruzzo e Friuli Venezia Giulia (con oltre il 14% dei residenti esteri). In termini assoluti, il maggior numero di iscritti, oltre 755 mila, viene dalla Sicilia. Dietro a tutti questi numeri però ci sono tendenze, questioni storiche e dinamiche molto diverse che varrebbe la pena di analizzare quasi caso per caso, perché non c’è dubbio che l’emigrazione di chi lascia territori meno sviluppati nasce da motivazioni anche molto diverse da quella che viene da grandi città come Roma o Milano. 

Chi parte, a che età e perché

Non se ne vanno solo i giovani, dicevamo. E anzi, la tendenza dei dati registrati nell’ultimo biennio dice molto chiaramente che a partire sono (nuovamente) anche gli adulti, dopo le grandi ondate migratorie del ‘900. L’aumento più sensibile lo abbiamo proprio, non in numeri assoluti (grafico qui sopra) ma in percentuale, tra le fasce di età che vanno dai 50 anni in su. Una novità rispetto a qualche anno fa.

Secondo la Fondazione migrantes, i dati possono essere interpretati in vari modi. Ci sono senz’altro ancora molte famiglie giovani che se ne vanno, con figli al seguito, e molte di queste famiglie scelgono paesi europei come la Francia o la Germania per ripartire. Ma c’è anche un fenomeno di genitori al seguito, di persone in età più avanzata che segue i propri figli e nipoti, spesso magari per facilitare la gestione familiare nel nuovo paese. E infatti si vedono andamenti paralleli a quelli delle giovani famiglie. Ci sono poi anche gli emigrati di ritorno, e cioè quelle persone che sono rientrate dopo essere state all’estero a lungo, ma decidono di ripartire, ripercorrendo talvolta la stessa rotta allontanandosi nuovamente dall’Italia, per tornare dai figli che hanno lasciato nel nuovo paese di adozione. O perché l’esperienza di rientro è stata deludente e hanno ritrovato una situazione diversa da quella immaginata in tanti anni di lontananza. Se i primi vengono definiti “migranti genitori-nonni rincongiunti”, i secondo vengono indicati nel rapporto come “migranti di rimbalzo”.

Secondo il rapporto Istat sulle migrazioni, la cui ultima edizione disponibile è del 2016, i genitori che pensano di seguire i propri figli all’estero rimangono una minoranza, ma una minoranza comunque ben definita. Ci sono però anche migranti maturi che se ne vanno perché hanno bisogno di lavorare. Per esempio i tanti disoccupati che negli ultimi anni, grazie alla crisi e alla serie di riorganizzazioni e rilocalizzazioni di tante aziende, hanno perso il lavoro. Sono ancora lontani dalla possibilità di andare in pensione e spesso hanno una famiglia a carico, magari anche figli che studiano o che sono laureati o diplomati ma non ancora autonomi economicamente. E trovano nelle aziende tedesche, francesi, svizzere o inglesi opportunità di impiego e salari più soddisfacenti che non a casa propria.

La questione dei cervelli in fuga

Rimane alta l’attenzione per l’uscita dal paese di persone giovani, formate dal nostro sistema scolastico pubblico, e quindi con un grande investimento in termini economici e sociali, e che poi vanno a fare lavori altamente qualificati altrove, sia nel campo accademico che in quello di professioni innovative, come ad esempio molte delle neo professioni nei vari settori del digitale. Istat infatti indica che più di un italiano su due quando emigra ha almeno un diploma e sono sempre in aumento i laureati italiani che lasciano il Paese (gli ultimi dati disponibili, del 2016, indicano un aumento del 9% di laureati che lasciano l’Italia rispetto all’anno precedente, per un totale di circa 25mila persone). In realtà però la crescita maggiore, già dal 2011 in poi, era quella di emigrati italiani con un titolo di studio medio-basso, 56mila persone, l’11% in più rispetto all’anno prima. Come sottolinea Guido Tintori dell’International and European Forum on Migration Research di Torino in una pubblicazione del 2017, se non c’è dubbio che esportiamo molti giovani, non è altrettanto scontato che tutti questi siano così altamente qualificati e ci sono anzi diversi dati, inclusi quelli che provengono dai vari consolati dei paesi di destinazione, che dimostrano che ci sono ancora molti giovani italiani con un basso livello di preparazione in cerca di lavoro assai poco qualificato nelle città di tutta Europa, dai commessi ai lavapiatti, da camerieri a baby sitter e via dicendo.

L’emigrazione di persone giovani ha anche prodotto una serie di cambiamenti nella generazione dei genitori. Fondazione Migrantes e Istat evidenziano la nascita di network e iniziative di genitori rimasti in Italia che si organizzano da un lato per dare supporto e aiuto ai figli emigrati e dall’altro per condividere una esperienza certo non semplice ma ormai tutt’altro che isolata, che passa dalla necessità di stabilire nuove routine per mantenere i legami con i figli e i nipoti che vivono altrove. Uno studio transazionale sugli over 65 fatto da Ipsos per la Fondazione Korian francese sottolinea che i genitori italiani sono i più presenti e attivi non solo sul piano economico ma anche come disponibilità concreta a partecipare alla vita dei propri figli. E così, se i figli emigrano, i genitori si organizzano. Esempi di questa tendenza sono siti come mammedicervellinfuga.com o l’iniziativa di ristorazione londinese “La mia mamma”, dove oltre 20 mamme italiane, alcune emigrate e altre solo frequenti viaggiatrici in visita ai figli, cucinano, a turno, per proporre piatti delle diverse regioni italiane, non solo ai propri figli ma anche ad altri clienti. Un business interamente ispirato proprio dalla grande presenza di giovani italiani nella capitale inglese.

I migranti previdenziali

Non c’è più alcun dubbio. Uno delle tendenze più interessanti e consistenti degli ultimi anni è quella dell’emigrazione dei pensionati italiani verso paesi dove una pensione medio-bassa consente comunque una vita piacevole. Grazie agli accordi bilaterali tra l’Italia e molti paesi che evitano la doppia tassazione dei redditi e delle pensioni dei cittadini residenti all’estero. Una condizione favorevole cui si aggiunge il fatto che molti paesi praticano attivamente politiche di attrazione dei pensionati con una defiscalizzazione molto spinta quando addirittura non una totale esenzione. E così, visto che la pensione media di anzianità in Italia è sotto i 1000 euro, per molte persone trasferirsi equivale a vivere molto meglio e a non fare troppi sacrifici. È il caso del Portogallo, ma anche dell’Ucraina, del Marocco o della Tunisia, ad esempio. Aggiungiamo che in molti di questi luoghi sono nate organizzazioni, gestite anche da italiani, che favoriscono l’acquisto o l’affitto di una casa e che facilitano tutto il percorso di inserimento. Si costituiscono così nuove comunità di anziani expat che vivono in luoghi caldi, piacevoli, con un basso costo della vita, come in una specie di eterna vacanza.

I dati dei rapporti INPS sulle pensioni internazionali sono piuttosto difficili da leggere e non sono nemmeno aggiornatissimi. Però aiutano a delineare il fenomeno. Il rapporto World Wide INPS, del 2014, per esempio cita l’erogazione di oltre 400mila trattamenti pensionistici verso italiani residenti all’estero.

L’insieme delle pensioni pagate a residenti all’estero costituisce una preoccupazione per l’INPS, se è vero che il presidente Tito Boeri ha dichiarato, nel luglio 2017 nel corso di un’audizione davanti al Comitato per le questioni degli italiani all’estero del Senato, che l’ente previdenziale ha pagato nel solo 2016 quasi 400 mila pensioni all’estero (373 mila), per oltre un miliardo di euro, contribuendo ad abbattere la spesa sociale di altri paesi e riducendo invece la capacità di spesa e consumo nazionale. Un dato simile si è registrato nel 2017. Gran parte delle pensioni estere viene pagata a residenti in altri paesi europei (180 mila, circa la metà), un’altra fetta consistente va in Nord America (circa 90 mila) e infine, seguono poi oltre 44 mila pensioni pagate in Australia, e oltre 36mila in America del Sud. Africa e Asia di fatto sono quasi inesistenti.

Senz’altro una fetta importante sono i lavoratori italiani emigrati e quindi residenti in altri paesi. C’è poi una parte di pensioni pagate a lavoratori stranieri che hanno maturato i propri contributi in Italia e poi tornano nel proprio paese quando vanno in pensione. Ma c’è senza dubbio, ed è in crescita, proprio un nucleo consistente di expat che ha scelto la via dell’emigrazione tardiva e previdenziale. Oltre 5000, secondo diverse stime. Un numero in crescita di anno in anno.

I nuovi italiani che poi se ne vanno

E infine ci sono loro. I neo italiani, quelli nati all’estero e poi naturalizzati in Italia, dove hanno acquisito nel tempo la cittadinanza. Tra il 2012 e il 2016 oltre 675 mila stranieri sono diventati cittadini italiani. Ma più di 25 mila, circa 4 su 100, sono ripartiti scegliendo un altro paese in cui andare a vivere. Più della metà, oltre 13 mila, nel solo 2016.

Secondo Istat questo è “un fenomeno che non si può più ignorare”. Sostanzialmente, i dati indicano che chi è arrivato in Italia, magari da un paese del Sud del mondo, attende di acquisire la nazionalità (e per questo deve risiedere da noi almeno 10 anni oltre a soddisfare una serie di requisiti di reddito e di assenza di precedenti penali) per riuscire poi a spostarsi più facilmente. E quando lo fa si sposta preferibilmente all’interno dell’Europa, dove come cittadino italiano può lavorare o studiare ovunque, o emigra verso gli Stati Uniti o l’Australia dove una nazionalità europea è senz’altro più accettata e pone meno problemi per l’ottenimento di visti e documenti. In un caso su cinque, la partenza è avvenuta entro un anno dall’ottenimento della cittadinanza, a indicare che la tappa italiana fa probabilmente parte di un progetto migratorio complesso che si compie in più fasi. Tra le comunità più mobili, Istat annovera quella bengalese, dalla quale 16 neo-cittadini su 100 lascia l’Italia, e quelle pakistane e indiane, rispettivamente con il 9% e il 6% dei trasferimenti.

Un fenomeno molto complesso, dunque, quello della migrazione, che i dati consentono solo di tracciare ma non di analizzare in dettaglio. Un fenomeno che caratterizza, sia in entrata che in uscita, il momento presente e che senz’altro contribuirà a determinare la struttura demografica ma anche culturale, sociale ed economica dell’Italia dei prossimi anni. Più integrata con l’Europa e con cittadini sempre più globali e capaci di costruire pezzi di futuro anche in luoghi diversi o un paese che sceglie di rimanere su una linea difensiva, incapace di capire, di valorizzare e magari perfino sostenere con politiche adeguate il movimento migratorio sia in entrata che in uscita?

 

 



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Redazione

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