Derby Lazio Roma 15 Gennaio 1989. Frammenti di un Derby passato sotto la Sud

Derby Lazio Roma 15 Gennaio 1989. Frammenti di un Derby passato sotto la Sud

C’è chi quel derby non l’ha vissuto e sta qui ad immaginarlo e ci sono migliaia e migliaia di persone che quel giorno erano lì allo stadio, o al bar davanti alla televisione o attaccati alla radiolina.
Pochi immaginavano che quel derby lo avremmo vinto, dopo 3 anni di B e a 10 anni dal nostro ultimo trionfo.  E Nessuno avrebbe mai immaginato che quel derby sarebbe passato alla storia grazie alla prestazione di un singolo giocatore.

Era una mite giornata di gennaio, le partite si giocavano tutte in contemporanea e le Tv ancora non le trasmettevano. Bisognava aspettare 90° minuto per rivedere i goal e le azioni salienti.

Il 15 gennaio 1989 andava in scena il derby Capitolino; l’ultimo risaliva a 3 anni prima, poi ci fu la retrocessione e la risalita in A. 10 anni prima Aldo Nicolini allo scadere regalò l’ultima gioia. Poi niente più, 4 sconfitte e 3 pareggi.

Alle 10.30 i tifosi erano già pronti ad entrare allo stadio, la partita sarebbe iniziata di li a poco.
Era la fine degli anni 80, quelli di Happy Days, di Fonzi e Ralp Malph. Erano gli anni della Levi’s mania e dei Roy Rogers, del chiodo nero e del Bomber, simboli di una generazione di ragazzi ispirati al mito del motociclista ribelle ma bravo ragazzo, forse poco istruito ma rispettoso dei valori.
Ogni tifoso li indossava, e insieme alla sciarpetta di ordinanza (rigorosamente di lana perché a quei tempi solo così le facevano), un cartoncino bianco da una parte e celeste dall’altra per la coreografia che di lì a poco avrebbe illuminato lo stadio e si sarebbe mischiata con i colori del cielo.

Fuori lo stadio, i tifosi giallorossi e biancocelesti erano molto vicini, ma la partita era troppo importante per creare casini. C’era chi chiedeva una sigaretta ai cugini e chi li salutava in segno di scherno. Loro erano inferiori di numero per i lavori dello stadio in vista dei Mondiali di Italia ‘90.
La Curva Sud era un piccolo spicchio ancora in ristrutturazione e la Nord era completata ma ancora non era unita alla tribuna Monte Mario.

La tensione era alle stelle perché la Lazio partiva sfavoritissima, complice il pessimo avvio di stagione ma anche le numerose assenze, Martina, Sclosa e Gregucci su tutti.
5 pareggi nelle prime 6 partite e 3 sconfitte nelle successive 5, compresa l’ultima 3-0 contro la Fiorentina la settimana prima, non lasciavano presagire nulla di positivo.

Gli spettatori presenti erano 35 mila, ma altrettanti erano nelle loro case con gli amici, attaccati alla radiolina.
Sintonizzati a Tutto il calcio minuto per minuto, poterono seguire la partita. Italo Moretti, Nicolò Carosio e Riccardo Cucchi (tra i tanti) salvarono migliaia di tifosi con le loro telecronache.
Lucio Dalla cantava in “Tempo”: «Sembra solo ieri che la domenica ci si chiudeva in casa con la radio, vedevamo le partite contro il muro non allo stadio…».
Seduti ad un tavolino o in piedi per l’ansia, il muro della stanza era il mega schermo della partita e da lì si provavano a concretizzare in immagini le azioni. L’immaginazione era la componente principale, si ascoltava e sul muro le parole diventano movimenti, le emozioni erano perennemente tese in un flusso ascendente di ansia e spesso tiri innocui degli avversari diventano bombe capaci di gonfiare il muro diventato rete.
Il limite lo si raggiungeva nel momento del goal. Urla, pianti, stramazzi, salti e ancora urla. I vicini non potevano immaginare o immaginavano sicuramente male i motivi di quell’euforia; ma giustificarsi non aveva senso. Dopo quel goal si era tutti felici. Il resto non aveva importanza.

Alle 14.30 la partita iniziava e con essa gli sfottò tra le tifoserie. Si alternavano cori l’una contro l’altra e poi l’avversaria gli dava un voto. Ovviamente i giudizi erano sempre bassi.

…con il barone, la zona mista, la curva sud e la…
Questo era uno dei tanti cori lanciati alla Sud, con chiaro riferimento all’allenatore Liendhom e al suo modo innovativo di far giocare i suoi difensori, abili nei contrasti ma soprattutto nello sviluppo dell’azione.

Poi le coreografie. Da una parte palloncini giallorossi, dall’altra banane giganti Chiquita in risposta.

Poi un immenso cuore bianco celeste o celeste bianco. Ogni tifoso della Nord aveva con sé un cartoncino bianco da una parte e celeste dall’altra.

Chi era con il megafono coordinava le manovre e in alcuni momenti la curva si presentava tutta bianca con un cuore celeste nel mezzo e in altri momenti tutta celeste con un cuore bianco. In quella giornata il cielo era limpido con qualche piccola nuvola e si prestava alla perfezione per fondersi con quella stupenda coreografia.
Anche 30 anni fa gli Irriducibili sapevano come mostrare la propria superiorità con i loro spettacoli coreografici. Immaginazione e imprevedibilità il loro modus operandi; stupore e tanti onomatopeici uuuaaaauuuu le reazioni di chi avevano di fronte.

Fin dai primi minuti era bene visibile il predominio laziale sul campo. La traversa di Voller nel primo tempo e il tiro in porta da calcio d’angolo di Conti nel secondo, gli unici pericoli corsi.
Al 25 minuto poi la storia. Scendeva verso il campo un lampo con il fragore di mille tuoni.
“Azione iniziata da Acerbi, perfezionata da Ruben Sosa e conclusa dal migliore in campo Paolo Di Canio” come poterono ascoltare gli spettatori di Rai uno dalla telecronaca post partita.
Di Canio abbassava la testa e con tutta la forza in corpo tirava una sassoiata che si infrangeva nella porta avversaria. Indice alzato e corsa sotto la curva Sud.
Il delirio, l’euro goal che risuonava dalla radio, la dicaniomania, il gl’avemo fatto male ancora una volta (15 anni dopo).
Chi era in Tribuna Tevere insieme ai cugini dovette cambiare settore dopo il goal e chi era nella Nord si ritrovò a festeggiare 10 file di scale più in basso.
Nessuno si aspettava quell’esultanza, significava violare il loro spazio, farsi beffe di loro, ferirli a morte e nessun’altro lo aveva fatto fino ad allora, se non un altro numero 9: Giorgio Chinaglia.
I cugini sbigottiti, sbiaditi, ammutoliti e la Nord in delirio. Non se lo aspettavano.
Non se lo aspettavano.

La partita continuava e la Lazio attaccava, sempre, di più. Ruben Sosa creava disordine in attacco e Acerbis, giocatore sempre molto riservato, reggeva alla perfezione il centro campo. Pressing, raddoppio delle marcature e lanci lunghi. La Lazio dominava. Aveva avuto le occasioni per raddoppiare ma finì 1-0. Forse è stato meglio così. Quel goal, quell’esultanza e la consapevolezza che con un solo goal segnato, il suo, aveva fatto vincere il derby, forse è stato più apocalittico di una goleada.
La partita finiva e i giocatori a festeggiare sotto la Nord. La gente piangeva e si abbracciava, non importava che chi si aveva di fronte, quel giorno, quel momento, ognuno di loro aveva il petto gonfio d’orgoglio e l’aquila nel cuore. Tutti erano fratelli accomunati dagli stessi colori e dalla stessa-immensa-gioia.

All’uscita dallo stadio la situazione era molto tranquilla. Come per l’entrata, le tifoserie erano vicine e anche questa volta non successe nulla. Alcuni bambini di fede romanista si lamentavano con i padri per gli sfottò, ma l’unica cosa che potevano fare i padri era tornare ai loro mezzi a testa bassa. Avevano accettato la sconfitta, erano consapevoli che era meritata e onore a loro per essersi comportati in maniera agonistica ed aver insegnato ai figli che perdere una partita non è perdere la vita e ci sarà sempre un’altra occasione.

Queste righe sono le voci delle tantissime persone presenti direttamente o indirettamente a quel derby.
Il lavoro è stato realizzato grazie a loro.

Redazione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.