Rompere il silenzio: la tragica realtà del femminicidio

Rompere il silenzio: la tragica realtà del femminicidio

La necessità di agire per sconfiggere la violenza di genere attraverso la consapevolezza.

Giulia Cecchettin, una giovane donna di 22 anni uccisa dal suo ex fidanzato Filippo Turetta nel mese di Novembre 2023, è una delle tante storie di femminicidio che hanno suscitato una forte indignazione.

Dopo una settimana di fuga, Turetta fu arrestato in Germania e indagato per omicidio volontario aggravato dal vincolo affettivo. Questo caso è un tragico esempio di femminicidio, che si verifica quando una donna viene uccisa per misoginia, ovvero a causa del suo genere.

Secondo le statistiche, il femminicidio è un fenomeno che non accenna a diminuire in Italia e in Europa. I dati aggiornati al 2024 mostrano che l’Italia si trova tra i paesi europei con un numero significativo di femminicidi, con 125 casi registrati nel solo 2022 su un totale di 319 omicidi. Le donne rappresentano circa il 39% delle vittime totali, ma salgono al 91% se si considerano le vittime uccise dai partner o ex partner. Sebbene l’Italia abbia un tasso di femminicidi più basso rispetto ad altri paesi europei, con lo 0,38% rispetto alla media europea dello 0,68%, la situazione resta preoccupante. In testa alla classifica si trova la Lettonia, con 2,14 femminicidi ogni 100.000 donne, seguita dalla Lituania e dall’Estonia.

Le cause psicologiche che possono portare a un femminicidio sono complesse e spesso legate a dinamiche di potere e controllo. In questo caso specifico, Turetta è stato descritto come un uomo che temeva la perdita della propria autorità e del proprio dominio, e che pertanto esigeva totale controllo sulla sua ex fidanzata.

La storia di Giulia Cecchettin è l’ennesimo triste promemoria della necessità di combattere la violenza contro le donne e prevenire il femminicidio, attraverso un’educazione che promuova l’uguaglianza di genere e il rispetto dei diritti umani.

Non tutti però sono a conoscenza del primo caso di femminicidio.

Nel grande museo all’aperto dell’Appia Antica, tra anonime tombe e malinconiche vestigia del passato, si distingue un sepolcro a forma di tempio, resistente al passare dei secoli. La sua maestosità attira l’attenzione dei visitatori, ma pochi conoscono la tragica storia di chi riposa al suo interno: Annia Regilla.

Quello di Annia, uno dei primi casi documentati di femminicidio, offre un’importante prospettiva sulla condizione delle donne. In un contesto patriarcale in cui le donne, anche di alto rango come Annia, erano considerate inferiori agli uomini e dovevano sottomettersi, la ribellione femminile spesso portava a pressioni psicologiche o fisiche. Le donne non conformi potevano essere punite con la morte, evidenziando la dura realtà delle donne nell’antica Roma, costrette a vivere in un sistema che le relegava ad una posizione subordinata e le esponeva a gravi rischi in caso di disobbedienza.

Regilla proveniva da una delle famiglie aristocratiche più importanti di Roma, con legami anche con la famiglia imperiale. Nonostante la sua infanzia privilegiata, fu costretta dal padre a sposare un uomo molto più grande di lei, Erode Attico, noto per il suo temperamento violento e collerico. La vita con lui fu un inferno: tradimenti continui, un trasferimento forzato in Grecia e un pestaggio che le costò la vita mentre era incinta del sesto figlio.

Il sospetto che dietro l’omicidio di Regilla ci fosse la mano di Erode Attico portò il fratello della vittima, Bradua, a cercare giustizia. Nonostante le prove non fossero schiaccianti, Bradua accusò pubblicamente Erode, che alla fine fu assolto con il sospetto che l’intercessione dell’imperatore Marco Aurelio abbia giocato un ruolo importante in questa decisione.

Dopo la morte di Regilla, Erode Attico tentò di cancellare la sua colpevolezza dedicandole monumenti e santuari, ma la verità rimase nascosta dietro l’apparenza di tristezza e lutto. La storia di Annia Regilla è un triste esempio di femminicidio nell’antica Roma, una vicenda di violenza e ingiustizia che resta ancora oggi irrisolta.

Lo scopo di questo articolo, è quello di approfondire la tematica.

Il femminicidio, da cui il termine in inglese “femicide”, coniato dalla criminologa femminista Diana Russel nel 1992, si riferisce alla violenza estrema e sistematica contro le donne, con l’obiettivo di distruggere la loro identità e autonomia, violenza che può manifestarsi in vari modi, dalla violenza domestica, allo stalking, agli abusi psicologici ed emotivi, fino ad arrivare all’omicidio.

Il femicidio, invece, è l’omicidio di una donna motivato esclusivamente dal suo genere. Si tratta di un atto di odio e disprezzo nei confronti delle donne, perpetrato unicamente perché vittime della discriminazione di genere.

Sebbene i termini femminicidio e femicidio siano spesso usati in modo intercambiabile, è importante sottolineare le sottili differenze tra i due concetti. Entrambi ci ricordano l’urgente necessità di combattere la violenza di genere in tutte le sue forme, e di promuovere un cambiamento culturale che promuova il rispetto e l’uguaglianza tra uomini e donne.

Il profilo psicologico degli uomini che commettono femminicidio può essere identificato attraverso le quattro categorie di aggressori descritte da Margaret Elbow nel suo studio del 1977 sulle relazioni violente.

Il controllore, è un individuo che teme la perdita del proprio potere e autorità cercando di esercitare un controllo totale sugli altri membri della famiglia. Il difensore, al contrario, è incapace di accettare l’autonomia degli altri e si lega a donne dipendenti per paura dell’abbandono. Il cercatore di approvazione è colui che ha un bisogno costante di conferme esterne sulla propria autostima e reagisce con rabbia alle critiche. L’incorporatore, infine, è colui che desidera relazioni di dipendenza e fusionale con la partner e può diventare violento se percepisce una minaccia alla stabilità della relazione.

Complessivamente, l’uomo che commette il femminicidio dimostra un forte bisogno di controllo nelle relazioni, spesso manifestato attraverso gelosia e dominanza. Quando percepisce una minaccia alla sua autorità o alla sua relazione, può reagire con comportamenti violenti per ristabilire il suo potere, comportamenti alimentati da una profonda insicurezza e da una difficoltà a gestire le emozioni in modo sano e costruttivo.

Il femminicidio è un grave problema presente nella mascolinità tossica e stereotipi di genere che riducono le donne ad oggetti senza autonomia.

I fattori di rischio comuni nei casi di femminicidio sono la scarsa istruzione, l’esposizione alla violenza in famiglia, l’abuso di alcol, la persistente disuguaglianza di genere e una mentalità che giustifica la violenza. In alcuni casi, problemi mentali come la depressione grave o disturbi della personalità possono contribuire alla violenza contro le donne.

In generale, il femminicidio è il risultato di una complessa interazione di insicurezze personali, difficoltà nelle relazioni intime e mancanza di controllo degli impulsi. I bambini che crescono in un ambiente dove la violenza familiare è presente possono essere profondamente influenzati dalle situazioni vissute e dai modelli adulti che li circondano, esperienze traumatiche che possono lasciare segni indelebili sulla loro psiche influenzando le loro relazioni future.

In ambito clinico, si osserva una complessa dinamica tra vittime e aggressori. Alcuni bambini possono imparare a sottomettersi fin da piccoli, mentre altri sviluppano comportamenti aggressivi come meccanismo di difesa, modelli comportamentali appresi che si manifestano in vari modi, come obbedienza e sottomissione o aggressività e violenza.

La violenza psicologica si manifesta attraverso una vasta gamma di comportamenti dannosi che possono causare un profondo disagio emotivo e psicologico nella vittima. Offese, denigrazioni, umiliazioni, isolamento sociale, controllo e limitazione della libertà. Quì, la vittima, viene costantemente insultata riguardo al proprio aspetto o alla propria intelligenza e spesso viene ridicolizzata in pubblico davanti ad amici, parenti o sconosciuti.

Questa forma di violenza non si limita a singoli episodi, ma si sviluppa nel tempo con un aumento della gravità seguendo un modello ciclico in cui gli episodi di aggressione e vessazione si alternano a momenti di tranquillità e apparente benessere.

La violenza psicologica, come le accuse infondate da parte dell’aggressore che attribuisce ingiustamente alla vittima responsabilità che non ha, è comportamento spesso accompagnato da minacce dirette alla vittima, ai suoi cari e alla sua cerchia sociale, con lo scopo di creare così una relazione altamente tossica e manipolativa.

Spesso le vittime di violenza hanno difficoltà a riconoscere dinamiche relazionali sane a causa delle esperienze passate. Alcune di loro, possono avere un’immagine idealizzata della relazione, rendendo difficile individuare i segnali di pericolo, per questo è importante sensibilizzare sul tema della violenza.

Spezzando il silenzio e la vergogna possiamo contribuire a costruire una società più consapevole, rispettosa e inclusiva, in cui le vittime possano trovare sostegno e protezione.

Nicoletta Covalea

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.