Da Orciano a San Miguel de Tucumán: la famiglia Vitali

Da Orciano a San Miguel de Tucumán: la famiglia Vitali

La testimonianza che segue mi è pervenuta da  San Miguel de Tucumán il 2 luglio 2004. Paola Cecchini

 

Mi chiamo Mafalda Rossi e sono nata ad Orciano, provincia di Pesaro, il 9 ottobre 1923. Sono venuta a Tucumán quando avevo ventitre anni.
Mi sono sposata il giorno della Pasquetta del 1946 con Idreno Vitali, nato il 31 ottobre 1921 e morto il 28 giugno 1997. Idreno aveva combattuto durante la seconda guerra mondiale e ci siamo sposati quattro mesi dopo il suo ritorno.
Mio marito lavorava in una fornace, una fabbrica di mattoni che si trovava nelle vicinanze del paese. Gli operai caricavano la terra dentro le macchine; erano ventiquattro e lavoravano in squadre di sei. Era un lavoro faticoso, bisognava essere forti.
Anch’io ho lavorato nella fornace per circa otto anni, da ragazza. In paese non eravamo abituati a passeggiare perché dovevamo lavorare; chi non lavorava non prendeva la paga. Sa come andavamo al mare? Ci riunivamo cinque-sei tra ragazze e ragazzi e partivamo in bicicletta. Pedalavamo per ventisette chilometri. Alla sera tornavamo a casa e la mattina seguente alle sei di nuovo a lavorare. Non andavamo mai a ballare.
Nel 1942, quando Mussolini era in buoni rapporti con Hitler, i tedeschi volevano che noi italiani andassimo in Germania a raccogliere patate.
Dal momento che in Italia gli inglesi avevano distrutto tutto, papà mi disse:
Mafalda, perché non andiamo in Germania?
Io acconsentii e nel 1942 partimmo: io, papà, il mio futuro suocero, una delle mie sorelle e mia cognata. C’era anche un fratello di mia zia Virginia. Eravamo tutti di Orciano.
Siamo stati sei mesi e abbiamo guadagnato molti soldi, ma per poco non mi fecero prigioniera. C’era la guerra. Tornati ad Orciano ripresi a lavorare nella fornace, ma non lo feci più dopo che mi sposai, perché era un lavoro pesante e io rimasi presto incinta. Lavoravo però in campagna: raccoglievo mais, grano, fave, qualunque cosa, e mi pagavano a giornata.
Il 3 marzo 1947 nacque Nadia, la mia prima figlia. Poiché ad Orciano tutto era in rovina, accogliemmo il consiglio di uno zio di mio marito che viveva a Tucumán, in Argentina.
Ci aveva scritto dicendo che in America si stava bene, che aveva anche l’auto.
Partimmo nel ’48 con la Ugolino Vivaldi dal porto di Genova.
Ero incinta della seconda figlia, Graciela, e durante il viaggio soffrii sempre il mal di mare. Rimettevo sempre e dovetti dormire sul ponte.
Quindici giorni dopo arrivammo a Buenos Aires dove i parenti ci avrebbero aspettato.
Loro abitavano a Monteros, così chiesero ai loro amici di venire a prenderci. Avevano dato loro una foto del nostro matrimonio, ma siccome noi eravamo con nostra figlia e ci presentavamo come una famigliola, questi non ci riconobbero, così restammo lì fino a che il porto non si svuotò.
Quando vedemmo due uomini con una foto, mio marito si avvicinò e chiese loro chi stavano aspettando; quando essi gli mostrarono la foto, egli rise:
– Quello sono io! – disse.
Quella notte dormimmo in casa di uno di loro ed il giorno seguente arrivarono i parenti di Tucumán e con loro prendemmo il treno per Monteros. Quante ore di viaggio! Io era stanca morta.
Quando arrivammo a Monteros, che impressione! Era tutto fango. Ho sofferto tanto al principio, ora, però, grazie a Dio stiamo bene.
Dopo tre anni, mio marito – che lavorava come muratore – mi disse se volevo tornare in Italia perché lui avrebbe firmato un contratto di lavoro negli Stati Uniti.
Nel ’52 quando morì Evita, tornai in Italia con la Giulio Cesare.
Ero incinta di nuovo e proprio sulla nave nacque un maschietto cui mettemmo nome Julio César.
Alla fine mio marito non partì, si fermò in Argentina e lavorò con l’impresa Elina costruendo pali della luce in cemento per la strada tra Escaba e Tucumán.
Poi anch’egli tornò. Si fermò un anno, ma in Italia non c’era abbastanza lavoro e tornò in Argentina prima che gli scadesse il passaporto.
Vendette la casetta che avevamo ad Orciano, mi diede metà del denaro e lui con l’altra parte comprò una motocicletta. Non poté portarla con sé, perché la bloccarono alla dogana; in seguito venimmo a sapere che un paesano l’aveva sdoganata, ma senza mai farcelo sapere.
Io mi fermai in Italia altri tre anni e rientrai nel ’55. Viaggiai con il piroscafo Augusto.
Arrivai a Buenos Aires proprio quando Perón perse il potere a seguito del colpo di stato, così la nave restò ferma per due ore in alto mare.
Monteros stavolta non mi fece tanta impressione perché già la conoscevo. Mio marito nel frattempo aveva costruito due stanzette ed una piccola cucina a legna; io avevo portato una pentola dall’Italia e lì cucinavo. Due anni dopo comprammo una cucina Kerosene e mio marito mi costruì un forno di terracotta. Cominciai a fare pagnotte di pane e a venderle. Alle undici di mattina era tutto venduto e così in tre anni abbiamo potuto pagare il terreno che costava 10.500 pesos.
Il terreno apparteneva allo zio di mio marito, ma non pensi per questo che ci abbia fatto lo sconto di un peso, no di certo.
Nel frattempo io tessevo e cucivo a mano. L’ho fatto per ventisei anni. Facevo un sacco di giorno e lo cucivo di notte.
Nel 1980 mio marito smise di lavorare perché era malato; prima non aveva voluto tornare in Italia e quando volle farlo, non fu più in grado.
Io ho sofferto e lavorato molto in vita mia, ma ora sto bene, prendo la pensione di mio marito dall’Italia.
A Monteros non c’erano altri marchigiani a quel tempo, oltre allo zio di mio marito ed a mio cognato che venne dopo di me, nel 1957. Era calzolaio e si sposò con un’argentina. C’erano però tanti italiani provenienti dalle altre regioni che sempre ci invitavano.
Io cucinavo come in Italia; facevo anche le ciambelle, il pane biscottato, la crescia di Pasqua col formaggio e senza zucchero, le crisciarelle (con frutta e zucchero), con la massa dei maccheroni. Là si facevano per Carnevale.
Le mie figlie (in tutto sono tre perché nel frattempo era nata Ana) hanno imparato a cucinare tutti i piatti italiani. Sanno tessere e ricamare. Una di loro è direttrice di una scuola; ora ha trentotto anni e si è sposata bene.
I miei figli (a Julio César si è aggiunto José) hanno studiato da maestri.
Sono sempre rimasta in contatto con il mio paese ed ho mantenuto corrispondenza con i miei parenti. Sono tornata tre volte: la prima nel ’72, dopo diciassette anni; poi nel 1980 e infine nel 1998.
In Italia sono tutti buoni, trattano bene le persone; ho sempre sentito la mancanza delle abitudini del mio paese.

Mafalda Rossi Vitali

Paola Cecchini

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