Arte come Filosofia: “Apocalittici e Integrati”

Arte come Filosofia: “Apocalittici e Integrati”

Di Andrea Cramarossa

 

Ogni qualvolta ci si immerge in un percorso d’arte, quadri e sculture alle pareti e nei crocevia di palazzi antichi, musei, spazi di qualsiasi genere che possano ospitare o farsi abitare-attraversare-trascinare dal passaggio degli artisti, ecco che immediatamente in me nasce quell’attenzione spregiudicata alla relazione tra le opere d’arte esposte, il concetto, e lo spazio che le ospita. Mi chiedo il perché di quella breve convivenza e come e in cosa questa relazione possa dirsi congrua e, allo stesso tempo, determinare un cambiamento, perlomeno interrogativo, nella comunità ove è calato.
Noto, oggi, un certo accanimento da parte dello spettatore nei confronti dell’artista.

Qualche artista, certo, può trarre godimento da questo interesse che può rasentare la perversione, la manicale ingerenza nell’esistenza altrui o l’incomprensibile copia di un sé digeribile per riscaldarsi sotto quella “luce riflessa” che, invece, tutto congela, a parte la sua stessa fonte luminosa che, in realtà, è spesso il sogno d’un essere randagio.

Questo mio tergiversare per meglio entrare nell’ottica della bella e interessante mostra curata da Loredana Cacucciolo presso la Pinacoteca di Terlizzi, in provincia di Bari, Pinacoteca che, in realtà, è stata abitazione del pittore terlizzese Michele De Napoli (Terlizzi 25 aprile 1808/ 24 marzo 1892). La mostra in questione, intitolata “Apocalittici e Integrati”, prende il suo titolo dal famoso e omonimo saggio di Umberto Eco, pubblicato nel 1964.

Nel suo saggio, Eco, si rivolgeva principalmente ai media, ovvero aveva, con queste due definizioni, anche classificato i due atteggiamenti verso i media. Ciò significa che, dalla pubblicazione del saggio, Eco ha segnato un punto di svolta nella discussione dei media in Italia.

Dunque, la domanda, è opportuna: a cosa si riferiscono queste due categorie se calate nel percorso dell’esibizione terlizzese?

Mauro Tersigni, al piano terra della Pinacoteca, apre il nostro incontro col figurativo/materico in “Comunicazione settimanale” e subito veniamo risucchiati dai vortici impetuosi e statici delle forme metalliche soffocate in gola di Giovanni Morgese o dal nitore poetico delle “Ricombinazioni” di Maria Bonaduce. La stessa Loredana Cacucciolo interroga la mia inquietudine, il mio spavento dello stare al mondo, col suo “Silenzi liquidi” nel più ampio progetto “Le stanze di Andrea”: un lampadario enorme incombe dall’alto in una stanza insanguinata di rosa purpureo; tutto è un vortice di pavimento e quel “mondo” cerca un suo centro. Sensazione di “apocalisse integrata”.

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Cerchiamo anche noi, abitanti di questo pianeta Terra, il nostro centro? Lo cercano quindi, anche gli artisti? O la loro inquieta ricerca è il loro centro? A che punto è il nostro cammino? È solamente un voler andare? Un sospingersi verso un baratro sicuro di innocente vuoto? Cos’è, esattamente, l’Apocalisse? Lo vediamo nell’angoscia quotidiana, nell’impossibilità, ormai, di esistere o co-esistere, per sé stessi e per gli altri, attraverso meccanismi di reciprocità, nella ricerca spasmodica del proprio centro al di fuori di sé, come menadi, sospinti dall’irrefrenabile convulsione dell’apparire.

Apparire, cioè, esistere.

Che sia questa l’Apocalisse del nostro tempo?

L’arte non può dare risposte ma solo determinare domande. Una collettiva, poi, con così tante voci – o meglio, con così tante grida – è quasi sempre una Babele d’incendio vocalico, ove – e in questo caso ancor di più – l’artista pare volerci dire che egli può, effettivamente, raccontare ancora ciò che accade poiché è in grado di leggere la società contemporanea più di chiunque altro, riproponendola ai nostri sguardi, talvolta e per fortuna, esterrefatti. Così, queste visioni di un tempo complesso e instabile come il nostro attuale, vengono sapientemente compresse nel gesto poetico sulla tela.

L’artista ha dalla sua la libertà di rappresentare la sua visione del mondo attraverso la libertà del racconto, decidendo il come, il dove e il quando del suo, personale, tempo interiore, interrogando le proprie caducità interpretative.

È evidente che quasi tutti gli Artisti esposti abbiano maturato una profonda sintesi della propria visione del mondo e dell’arte.

La tela e il gesto ad essa collegato (per quell’afflato e per quell’innamoramento che l’essere umano coglie nell’azione celata nello sguardo insondabile dell’oggetto inerte, in un suo momento estetico ed estatico d’intuizione) si propongono ai nostri occhi con estrema sincerità. Piombo, improvvisamente, nel figurativo ottocentesco del de Napoli, al secondo piano del palazzo: così estraniante, dopo questa premessa di contemporaneità. Eppure, così vitale, così necessaria. Così importante.

Opere di Michele de Napoli sono esposte nelle chiese e nella cattedrale della cittadina o in altri luoghi del mondo ma, in questo secondo piano, io vago soprattutto tra bozzetti, disegni, prove e un mucchio di interessantissimi “ripensamenti”, laddove l’opera terminata giace in altro luogo in bellissima mostra di sé.

Ed è come stare col movimento dello stesso pittore, come a volerlo immaginare lì, in quelle stanze, in procinto a disegnare un volto, a trovare il giusto equilibrio e le proporzioni impeccabili della magnificenza espressiva. Una apoteosi di classicismo e di accademismo! Resto stupefatto nel guardare i ritratti, soprattutto i ritratti e i volti, perfetti, incredibilmente umani, troppo umani, così privi di imperfezione nella loro grande staticità da essere eternizzati in un’essenza angelica e divina di incommensurabile bellezza.

Siamo, in questo piano, nel settore “Integrati”? Soggiunge un sospetto. Che sia questa sicurezza rasserenante della classicità a pacificarmi col mondo e a integrarmi con l’universo? No, decisamente, no, siamo nel caos totale anche qui.

Abbagliato, non riesco a staccarmi dalla perfezione accademica della straordinaria opera “Mario sulle rovine di Cartagine”, nel catalogo che sfoglio mentre mi sposto tra le opere esposte, costringendomi ad una doppia lettura delle immagini. Il dipinto raffigura Caio Mario che legge, affranto e triste, la lettera del Senato che lo costringe a lasciare l’Africa. Mi turba la compostezza di Mario contrapposta all’insolenza del soldato che gli consegna la lettera: è la sua Apocalisse. Caio Mario, dopo la sconfitta subita dal generale Silla, dopo la guerra civile a Roma, sceglie l’esilio riparando in Africa, nel 88 a.C. Il suo tentativo di “integrarsi” si perde in una “tela e nel suo gesto” e, immancabilmente, perdutamente, leggo questo tentativo di integrarsi come vulnus all’esistenza e la prima risposta, forse, è qui, dentro quest’opera che è, invece, l’esistente.

L’oscillazione suggerita dai due termini individuati da Eco, sembra non volersi fermare mai ma, soprattutto, sembra non voler lasciare spazio a uno spazio, quello tra le stesse due parole. Esso risulta essere un luogo inerte, desertificato, abitato da spettri consunti dalla spoliazione secolare delle nostre ricerche esistenziali: è nella guerra che pulsa il cuore dell’Apocalisse. Una guerra come stato, però, non come evento. E tutto il resto del tempo è soltanto pace. Scopro, così, che l’integrazione altro non è che l’integrazione nell’Apocalisse, il luogo dove tutto comincia mentre tutto si disgrega, si annienta.

Integrarsi nell’Apocalisse è possibile.

Devo allontanarmi, però, da me stesso per calarmi nel primo pensiero di Umberto Eco. Ma chi sono gli uni? Chi sono gli altri? Prendiamoci un attimo di tempo per capire. Gli apocalittici pongono cultura pop, mass-media e “industria culturale”, nel calderone di una decadenza della società moderna; gli integrati preferiscono raffigurarsi come felici consumatori dei media e delle culture “non alte”, esaltano gli effetti positivi della società mediatica esaltando quella che a volte ricorda un po’ la retorica ottocentesca nelle “magnifiche sorti e progressive”.

Eco scrive così: “L’Apocalisse è un’ossessione del dissenter, l’integrazione è la realtà concreta di coloro che non dissentono. L’immagine dell’Apocalisse va rilevata dalla lettura dei testi SULLA cultura di massa, l’immagine dell’integrazione emerge dalla lettura dei testi DELLA cultura di massa”.

Dunque, un’analisi perfetta, più approfondita sulla cultura popolare, assieme a saggi sul fumetto, sulla musica di consumo e sulla televisione. Apocalittici e integrati sono due “concetti-feticcio”, cioè generici e rigidi. Feticizzare vuol dire reificare una cosa animata e deificare una cosa inanimata, fissare il mutevole e il continuo in categorie discrete e immobili. Per questa ragione, temo che l’artista non trovi spesso modo di immergersi nei territori del nulla, tra un “concetto-feticcio” e l’altro, perché luogo desertico, spaventosamente vuoto, sotto vuoto, improbabile vertigine di un caos che si fa segno e concetto esso stesso e, contemporaneamente, diviene forma di integrazione, in questa sua chiara proposta del dolore esistenziale.
L’arte aumenta “la difficoltà e la durata della percezione”, descrive l’oggetto “come se lo vedesse per la prima volta” (come se non esistessero già delle formule per descriverlo) e “il fine dell’immagine non è di rendere più vicina alla nostra comprensione la significazione che veicola, ma di creare una percezione particolare dell’oggetto”. In arte vi è “ordine” e tuttavia non vi è una sola colonna del tempio greco che lo segua esattamente, e il ritmo estetico consiste in un ritmo prosaico violato, un ritmo complesso.

Il bisogno di catalogare qualsiasi esperienza, confonde, a mio avviso, l’artista stesso, inglobando la sua esistenza in un magnifico turbinio di lotte volte a conquistare perennemente la libertà, ad essere sempre sul campo di battaglia, pronto a ruminare ciascun tratto di sobrietà o di mondanità che questo mondo umano, fin troppo umano, rappresenta continuamente fuori e dentro di sé. Essere dentro lo spirito del movimento in sé, dentro l’azione, libera da qualsiasi etichetta possibile, lanciando lo sguardo nel grido muto dell’indicibile.

Andrea Cramarossa

“Apocalittici e Integrati” a cura di Loredana Cacucciolo.
Terlizzi, Pinacoteca, fino al 20 gennaio 2023.

Organizzazione:
Amici della Fondazione “E. Pomarici Santomasi” – Gravina di Puglia – Bari; Arte Contemporanea Eventi – Bari; NeoArtGallery Roma/Istanbul; Adsumartecontemporanea – Terlizzi. Con il contributo di Home of Art – Bari

Testi di riferimento:

“Apocalittici e Integrati” di Umberto Eco.
“La struttura assente” di Umberto Eco.
“Michele de Napoli. Dalla “pittura istorica” alle opere tarde” a cura di Gaetano Mongelli.

 

(Arte come Filosofia. 1. “Apocalittici e Integrati”. Mostra presso la Pinacoteca di Terlizzi (BA); vista il 9 dicembre 2022. Vista da Andrea Cramarossa)

Redazione Radici

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