Figli e nipoti dei “Gastarbeiter” italiani in Germania

Figli e nipoti dei “Gastarbeiter” italiani in Germania

Di Miriam Gigliotti

Diverse rispetto alla prima generazione sono state le difficoltà di inserimento della seconda e della terza generazione di italiani in Germania, il cui arrivo ha obbligato quest’ultima ad aprire gli occhi su problematiche di vario genere, abitative, scolastiche, assistenziali.
La letteratura riguardante i figli dei migranti in Germania inizia a venire prodotta in particolar modo tra gli anni ’70 e’80. Oggetto di queste ricerche sono i giovani, figli dei migranti provenienti in parte da Stati membri dell’Unione europea , in parte da Stati non europei con i quali la Germania aveva stipulato accordi di reclutamento di forza lavoro. È in questa fase che questi giovani iniziano a venire “etichettati” dalla letteratura scientifica come “seconda generazione”, i figli dei “Gastarbeiter”, ricongiunti a questi o nati in Germania a seguito dell’emigrazione.
I pochi studi condotti in questo periodo riguardavano per la maggior parte giovani di seconda generazione di origine turca, mentre scarse risultavano le ricerche sui giovani di seconda generazione di altre nazionalità, in quanto considerati “poco problematici” e quindi di scarso interesse per la ricerca.
Guardando ai processi di inserimento ed adattamento, l’arrivo della seconda generazione di italiani in Germania sembra facilitato rispetto a quello dei loro genitori. È solo successivamente che si comprenderà quanto questa generazione abbia viceversa vissuto le conseguenze negative del posizionamento di questi ultimi nella società tedesca.
Parlando dei figli dei “Gastarbeiter” italiani in Germania U. Apitzsch parla di una generazione “sballotata” tra due paesi. È un’esperienza che, come spiega l’autrice, è divenuta, in tante occasioni, una sorta di trappola per questa generazione e questo sia rispetto
all’ inserimento sociale, sia rispetto a quello scolastico e lavorativo e tutto ciò è avvenuto su due fronti: quello del paese d’origine e quello d’accoglienza.
A seguito dell’emigrazione questa generazione si è trovata di fronte alla sfida di doversi distanziare dal primo, dalle condizioni di vita che poteva offrire, dal contesto politico ed economico che, nel caso dei figli dei “Gastarbeiter” italiani emigrati in Germania a cavallo tra gli anni ‘60 e ’70, era un contesto segnato dalla “cultura della miseria”. È un aspetto questo che ha avuto un riflesso anche sull’ approccio con il nuovo contesto di vita. La ricerca di “appartenenza” rispetto a quest’ultimo si è tradotta in un “lavoro biografico” basato sulla ricostruzione di uno spazio simbolico tradizionale che gli ha permesso di meglio identificarsi e di definire la propria posizione nella nuova società, seppur come figli di migranti.
Sono giovani che si sono trovati a confrontarsi con sistemi familiari e culturali differenti:
la cultura familiare da una parte, tipica delle regioni meridionali e caratterizzata da un sistema familiare chiuso, che in tanti casi si è rifatta a valori quali il senso dell’onore , l’orgoglio della famiglia, ma anche la protezione e sottomissione alle relazioni al proprio interno (rapporto marito-moglie, genitore-figlio, maschio-femmina).
Dall’altra il modello familiare proposto dal contesto urbano-industriale tedesco, maggiormente aperto verso l’esterno, verso valori come il successo e la felicità individuale, dove il ruolo della famiglia è stato subordinato alla realizzazione individuale e non sempre e solo familiare.
La vita di questi giovani è stata così segnata – spiega ancora U. Apitzsch, – da una “doppia situazione di stress”: da una parte le aspettative genitoriali; dall’altra le valutazioni di questi giovani, sia che siano nati in Germania sia che siano nati in Italia, e questo non solo rispetto al progetto familiare iniziale ma anche rispetto alle probabilità personali di avere successo.
In questa esperienza l’autrice mette in luce aspetti legati alle differenze di genere:
il distanziamento dei figli maschi dalla famiglia in fase di crescita è stato più semplice, in quanto spesso esonerati dagli obblighi ed impegni familiari e godendo così di maggiore libertà al di fuori di famiglia, della scuola o professione, sviluppando invece un maggior orientamento verso il gruppo dei coetanei (“Peer group- Orientirung”; nel caso delle figlie femmine è emerso invece un orientamento dialettico verso la famiglia (“Dialektik der Familienorientierung”) che ha portato viceversa le giovani donne a sviluppare maggiore interesse verso la formazione scolastica e maggior successo in questa rispetto ai coetanei maschi, aspetto che però – loro malgrado – pare non essere stato determinante in Germania, dovendosi confrontare comunque con frequenti barriere e limitazioni nei percorsi di mobilità sociale. Tutto questo fa meglio comprendere quanto la seconda generazione si sia trovata a vivere esperienze di discriminazione differenti rispetto alla prima. Se quest’ultima, infatti, era considerata una generazione di “lavoratori ospiti” (c.d. “Gastarbeiter”) ai quali venivano comunque riservati sostegni statali di vario genere (politici, sindacali, sociali, etc.), la seconda è una generazione “svantaggiata” trovandosi all’interno di una vera e propria “trappola della modernità”. Si tratta di una trappola a due facce: quella della società d’accoglienza, dovuta alle frequenti lacune culturali e linguistiche, alle discriminazioni subite, agli ostacoli e limitazioni poste a questi giovani che li hanno portati a vedere insoddisfatte e irrealizzabili le aspettative e ciò che la modernità del nuovo contesto avrebbe potuto offrirgli; dall’altra un eventuale rientro nel paese d’origine avrebbe comportato comunque un difficile reinserimento professionale, a differenza di come invece potevano fare i propri genitori nei periodi di crisi economica. Tutto ciò si è tradotto allora, per molti giovani, in una forma di rassegnazione rispetto all’idea del rientro in patria, in disinteresse e disillusione rispetto alla situazione politica del contesto di arrivo e viceversa in un chiaro orientamento verso il gruppo dei coetanei, in particolar modo, come detto, per i maschi con il conseguente allontanamento dalla famiglia d’origine. Dall’altra la scuola, un percorso non sempre facile per la seconda generazione che si è dovuta confrontare con esperienze di emarginazione, insuccesso, discriminazione differenti, aspetto che ha chiaramente influenzato in modo negativo anche la carriera professionale, la qualità di vita, oltre che i loro figli: la terza generazione.
La terza generazione ha sicuramente meno difficoltà linguistiche rispetto alla prima e alla seconda, ma si affaccia ancora al mercato del lavoro con diverse difficoltà legate alla mancata o insufficiente formazione.
Ancora oggi, a più di sessant’anni di distanza dall’arrivo dei primi “Gastarbeiter”, la maggior parte dei giovani di terza generazione frequenta la “Hauptschule” , e non il liceo, inoltre rappresenta ancora la percentuale più elevata tra gli studenti stranieri che frequenta la “Sonderschule”, la c.d. “scuola differenziale” per bambini con handicap fisici, psicologici o con difficoltà di apprendimento. In entrambi i casi non è loro possibile proseguire il percorso di studi a livello universitario, con le ovvie conseguenze e penalizzazioni in ambito professionale.
Come spiega A. Negrini si comprende come sia l’ambiente familiare, sia il contesto migratorio siano state cause dirette dei problemi scolastici delle seconde generazioni di italiani in Germania, che hanno reso difficile il loro inserimento scolastico, potendo per questi individuare diversi motivi: l’età in cui il ragazzo è emigrato o si è ricongiunto alla famiglia, aspetto che ha avuto un’influenza diretta anche sull’apprendimento della lingua e sull’inserimento positivo nel sistema scolastico tedesco; il fenomeno del “pendolarismo” che ha reso il percorso scolastico di questi giovani frammentato, diviso tra il sistema scolastico italiano e quello tedesco, con la conseguenza di vedere ragazzi analfabeti in entrambe le lingue ed impreparati in entrambe le culture; il basso livello di preparazione culturale e professionale di genitori e nonni che non sono sempre stati in grado di aiutarli nel percorso scolastico; la provvisorietà in cui per anni si sono trovati a vivere le prime generazioni, accompagnati dal “mito del rientro”.
E’ stata una temporaneità che in alcuni casi è arrivata a frenare e ostacolare non solo i genitori ma anche i figli nella ricerca di un maggiore e migliore inserimento nella struttura sociale tedesca; il tipo di alloggio situato in quartieri o costruzioni fatiscenti o in condizioni igieniche – sanitarie o di sovraffollamento che non hanno certo conciliato lo studio delle generazioni più giovani; la situazione di emarginazione geografico – abitativa che in molti casi ha visto ghettizzata in quartieri periferici la comunità italiana, portando i giovani a frequentare coetanei, altrettanto italiani o stranieri, aspetto che ha ulteriormente limitato e ostacolato l’apprendimento corretto della lingua tedesca; l’occupazione lavorativa dei genitori impegnati in lavori faticosi, spesso in turni serali o notturni, privando i ragazzi della presenza equilibrata e costante all’interno del contesto domestico.
L’unica eccezione rispetto a queste situazioni sembra essere rappresentata dai figli dei lavoratori autonomi che solo raramente però proseguono nella gestione dell’attività familiare. L’appartenenza etnica diviene allora in questi casi un punto di forza, come nel caso degli ethnic business. Basti pensare ai migranti italiani che nel corso degli anni ’70 quando, non riuscivano a realizzarsi professionalmente come lavoratori dipendenti, decidevano di investire in attività imprenditoriali autonome (i c.d.“imprenditori etnici”) andando, grazie alle loro imprese, ad occupare quelle “nicchie” scoperte del mercato tedesco, in ambiti quali la vendita di alimentari, le pizzerie, le gelaterie, la gastronomia, l’artigianato, l’import-export di prodotti tipici italiani, dando vita a reti economiche transnazionali. Volendo fare una fotografia più attuale delle giovani generazioni, si nota come a partire dagli anni ’90 la mobilità italiana verso la Germania abbia assunto “facce nuove” e si sia trovata in fase di ripresa. Se da una parte infatti sono riemerse forme di mobilità stagionale, com’è il caso dei gelatieri, dei gestori di attività gastronomico – alberghiere, di migranti legati ancora alla comunità italiana formatasi negli anni ’60-’70, dall’altra si è assistito sempre più frequentemente a spostamenti di studenti, lavoratori altamente specializzati, che sul mercato del lavoro tedesco trovano ancora maggiori sbocchi professionali rispetto a quello italiano.
Sono queste diverse forme di mobilità che oggi fanno sempre più chiaramente intravedere spazi transnazionali, transculturali, divenuti parte integrante di queste vecchie e nuove esperienze migratorie.

Redazione Radici

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