Il discorso di Xi Jinping al XX Congresso del PCC

Il discorso di Xi Jinping al XX Congresso del PCC
Fonte immagine: Wikimedia Commons

di Donatello D’Andrea

Il 16 ottobre si è aperto il XX Congresso del Partito Comunista Cinese. Si tratta dell’evento politico più importante e delicato per la Cina. Quest’anno poi, si prevede un epilogo del tutto particolare. Infatti, l’attuale segretario del Partito comunista, nonché Presidente della Repubblica Popolare, Xi Jinping, è in corsa per il suo terzo mandato consecutivo. Si tratta della rottura di una tradizione trentennale, la quale, da Deng Xiaoping era diventata una formalità istituzionale in piena regola. Il leader che successe a Mao, l’autore del grande balzo e della rivoluzione culturale, decise che non ci sarebbe stato più alcun “capo eterno“, stabilendo che nessuno avrebbe dovuto governare per più di dieci anni, cioè due mandati. Da ora in poi non sarà più così, dato che nel 2018 il Congresso del Popolo ha eliminato questa regola e ora Xi Jinping si prepara ad essere investito per la terza volta come guida del partito e, quindi, del Paese.

Il Presidente ha tenuto un discorso lungo circa un’ora e quarantacinque minuti, cioè la metà rispetto a quello dello scorso congresso, all’interno del quale si è concentrato sostanzialmente su tre punti: Taiwan, a strategia zero Covid e il contesto internazionale.

Sui primi due punti, trattandosi di temi di politica interna, Xi ha dapprima rivendicato il successo per la misura restrittiva che avrebbe azzerato i contagi in Cina, la quale però è stata molto criticata perché ha rappresentato un freno allo sviluppo. Per la prima volta dopo decenni la crescita cinese è al di sotto della media asiatica (+2,8%).

Su Taipei, Xi Jinping ha insistito nel definirla una questione che soltanto Pechino può risolvere. Il processo di riunificazione nazionale va completato a tutti i costi, anche ricorrendo alla “violenza”.

“Non rinunceremo mai al diritto di usare la forza per la riunificazione di Taiwan”. Un virgolettato che vale più di mille parole o di intensi e retorici discorsi di circostanza. Le parole chiave per interpretare il pensiero di Xi Jinping su Taiwan stanno tutte in questa brevissima frase. L’isola di Formosa rappresenta un pallino della politica estera del segretario e un’ossessione per la sicurezza geopolitica cinese. Promettendo di usare la forza per riunificare l’isola, Xi ha risposto agli americani, i quali che soltanto una settimana fa definivano una “minaccia principale” coloro che erano disposti ad allargare i propri confini ricorrendo alla violenza. La Cina ha risposto per le rime alla National Security Strategy, il documento che viene redatto periodicamente dalla Casa Bianca e riguarda, in linea generale, la politica di sicurezza nazionale degli USA.

Legato all’aspetto militare, Xi parla anche del nuovo piano di sviluppo delle forze armate, sottolineando come quelle cinesi stiano diventando di livello mondiale. Dal punto di vista degli investimenti non si possono non tenere in considerazione i volumi di denaro che il governo di Pechino ha impiegato per incrementare la spesa militare: circa 200 miliardi di dollari soltanto nel 2022, cioè più del doppio di quanto speso rispetto al primo mandato di Xi. Le differenze in termini di mezzi e uomini con Taipei si stanno allargando inesorabilmente. Un annuncio, questo, che ha come obiettivo quello di sottolineare come la Cina, se solo volesse, potrebbe riprendersi Taiwan in qualsiasi momento.

Per il Presidente, come sottolineato, la riannessione di Taiwan è un affare interno su cui non si ammettono interferenze. Xi, poi, ritenta nel proporre all’isola di Formosa il sistema che per anni ha retto Hong Kong, quello di “un Paese, due sistemi“. Dopo i tentativi andati a vuoto nel 2020 e lo scorso agosto, anche questa volta la risposta del governo locale è stata decisa: “nessun compromesso su democrazia e sovranità nazionale“. Per la Cina soltanto questo è l’unico modo per risolvere la crisi in maniera pacifica.

Poi c’è il contesto internazionale. Xi ha parlato tanto di “sicurezza”, nominandola ben 90 volte rispetto alle 50 della scorsa volta e rapportandola non solo alla situazione esterna ma a quel “ringiovanimento nazionale” che in Cina vuol dire tanto. La sicurezza è al centro del partito e dello stato, più dell’economia, più di qualsiasi altra cosa. La “sicurezza nazionale” va perseguita sia sul fronte interno, con un rinsaldamento dei metodi di controllo, ma soprattutto all’esterno, contro coloro che vogliono bloccare l’ascesa di Pechino – gli Stati Uniti. Gli americani, almeno direttamente, non hanno trovato spazio nel discorso di Xi Jinping, anche se si può facilmente intuire che il riferimento alle forze che vogliono “bullizzare” la Cina per difendere le proprie posizioni è diretto proprio nei confronti degli yankee.

La “nuova” Cina di Xi Jinping punterà molto sulla diplomazia, cioè sulla creazione di sistemi di alleanze nell’aree contese del pianeta, cioè nell’Indo-Pacifico e in Asia. La strategia americana nell’area economicamente e commercialmente più prospera del pianeta, è in pericolo. La tattica cinese di investire capitali nei diversi Paesi che puntellano quello spaccato di oceano, in nome di una “prosperità comune“, punta a presentare Pechino sotto la veste di un partner commerciale ricco e affidabile, mettendo da parte i valori, la politica e la cultura. Anche storici alleati come India e Filippine, seppur vicini a Washington, su alcuni dossier si sentono più vicini a Pechino (clima, commercio e tecnologia, ad esempio). Xi, insomma, investe ancora sul soft power, non potendo, in realtà, fare altro. Sia Washington che Pechino sanno benissimo che aumentare la tensione in un periodo come questo sarebbe una pazzia.

Non trova, invece, spazio, tra i temi trattati durante il discorso di Xi Jinping, la guerra tra Russia e Ucraina. Ma, in alcuni casi e soprattutto quando ci si concentra sulla politica cinese, “il non detto conta tanto quanto quello che viene detto“. Si sa che esiste una sostanziale affinità di vedute tra Cina e Russia, ma la guerra contro Kiev ha cambiato un po’ le carte in tavola. Pur appoggiando Putin, Xi Jinping ha accolto con una certa irritazione gli sviluppi della guerra, soprattutto quando il Cremlino ha cominciato a paventare l’uso dell’arma nucleare, finendo poi per adottare una fondamentale ambiguità strategica, che permette a Pechino di tenersi fuori dal conflitto pur continuando a dialogare con il russo.

I motivi per cui Xi Jinping non ha gradito l’iniziativa espansionistica di Putin sono chiari: la guerra ha destabilizzato l’Eurasia, ricompattando il fronte della Nato – alleanza che Macron dava cerebralmente morta fino a qualche mese prima – devastato l’economia globale – un pegno che paga anche la Cina con la bassa crescita – e ha inasprito i toni della diplomazia internazionale, portando Washington ad aumentare il livello di sicurezza su Taipei. In pratica Putin ha un po’ scompaginato i piani di Xi Jinping, condizionandone l’iniziativa geopolitica. Il “non detto” risponde, insomma, a un certo fastidio nei confronti di quanto sta accadendo ma anche al fatto di tenersi quanto più possibile neutrale (e imprevedibile).

Il mondo sta cambiando, la Cina si adegua per tutelare i suoi interessi e garantire la sua sopravvivenza. Difficile prevedere cosa accadrà a Pechino con il terzo mandato di Xi Jinping. Di solito, quando un leader paventa minacce esterne, lo fa per ottenere più poteri. Xi ha chiesto più strumenti per garantire la sicurezza dello stato. Tali richieste sono un segno di forza o di debolezza? Il periodo difficile, sia in politica interna che internazionale, ha convinto Xi a mettere in campo ogni strumento per fronteggiare le sfide del futuro con successo. Il rallentamento del PIL è un segno distintivo del momento vissuto da Pechino, che teme di non poter più garantire al proprio popolo la promessa del benessere economico. Di conseguenza vanno ricercate altre soluzioni persuasive. Inoltre, le turbolenze internazionali disturbano i movimenti cinesi fuori dai confini. Sicurezza interna ed esterna si incontrano per fronteggiare ogni fattore presente e futuro in grado di agitare la stabilità interna. A questo proposito, le parole di Xi Jinping sono abbastanza eloquenti e indicative:

Bisogna far sì che la casa sia in buone condizioni prima che arrivi la pioggia e prepararla a sostenere le difficili prove di forti onde e venti, ma anche il pericolo di mari tempestosi”.

Redazione Radici

Donatello D'Andrea

Classe 1997, lucano doc (non di Lucca), ha conseguito la laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali e frequenta la magistrale in Sistemi di Governo alla Sapienza di Roma. Appassionato di storia, politica e attualità, scrive articoli e cura rubriche per alcune testate italiane e internazionali.

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