La coscienza: l’istanza dell’umanità in noi

La coscienza: l’istanza dell’umanità in noi

Markus Krienke

“È una questione di coscienza”, “è una persona senza coscienza”, “in coscienza, non mi sento di” … spesso usiamo – e abusiamo – di questa parola, e poche volte ci fermiamo a chiederci che cosa significa veramente? In una prima approssimazione potremmo riferirci all’evidente esperienza di un’istanza in noi che ci accusa o ci giustifica, e che vorremmo tutti sapere “dalla nostra parte”. Una sorta di “giudice” o “tribunale” che certamente ha a che fare con la sfera morale. E così non meraviglia se sin dall’antichità i filosofi si sono interrogati di che cosa si tratta in ultima analisi. Specialmente nella tradizione cristiana, è stata identificata con la “voce di Dio in noi”. Nell’illuminismo, poi, venne a significare l’originale innocenza della natura o semplicemente l’autorità assoluta della ragione. Nel marxismo la si spiega con l’istanza sociale interiorizzata, e per la psicanalisi di Freud è il sinonimo del Super-io. Dentro ogni uomo e donna, quindi, i vari filosofi identificano ciò che ritengono un riferimento assoluto, imprescindibile di tutte le nostre azioni e che, come un giudice, si sottrae al nostro tentativo di “manipolarlo”. Non sta alla nostra disposizione, ma proprio per questo facciamo fatica a inquadrare la coscienza e a “definirla”.

Recentemente il filosofo greco Apostolos Apostolou ha promosso un convegno filosofico a Samos (https://stepsofpythagora.eu/πρόγραμμα-program-2022/, prossimamente saranno disponibili le registrazioni online) che si è occupato a comprendere concetti complessi come quello della “coscienza” non solo nella loro evoluzione storica, ma anche nel loro significato attuale. È emerso come un filosofo di un secolo e mezzo fa – Antonio Rosmini (1797–1855) – può aiutarci a comprendere oggi che cos’è la “coscienza”. Principalmente, egli ci dà tre indicazioni:

Innanzitutto Rosmini scrive: «Certo, se tutto procedesse bene nell’uomo, egli non si fermerebbe gran fatto né pure a pensare astrattamente alla legge [morale]» ed è soltanto la questione difficile perché facciamo del male per cui l’uomo «è costretto a pensare alla legge anco astratta […]. Egli non aveva mai sperimentata la forza della legge prima d’averla a sé contraria». La coscienza, dunque, nasce con un’esperienza o più precisamente con l’esperienza terribile del male. Ma se è possibile fare l’esperienza del male, allora vuol dire che in qualche modo sappiamo cosa sarebbe in tal caso il contrario ossia il bene: per questo ci troviamo portati verso quella «legge morale» che anche Kant riteneva – insieme al «cielo stellato» – un’originaria esperienza dell’assoluto da parte dell’essere umano.

Come facciamo però a coltivare la consapevolezza di questa legge e a far sì che essa ci aiuti a realizzare il bene anziché il male? Ecco la seconda indicazione: «la bontà di questa volontà [dell’uomo] è tanto maggiore, quanto è maggiore l’essere ch’ella ama». È l’amore quello che coltiva la nostra volontà e fa sì che diamo realtà concreta alla «legge morale». «Amore», per Rosmini, è un equivalente a «riconoscimento», e contiene senz’altro quel aspetto positivo dell’empatia senza il quale nulla di buono sarebbe mai stato realizzato. La coscienza, dunque, si coltiva con l’empatia, l’amore e il riconoscimento degli altri. Senza questa empatia, diventeremmo “sociopatici”, e sicuramente non si direbbe che siamo guidati dalla “coscienza”.

Ma c’è un terzo aspetto, importante: l’empatia e l’amore tendono di diventare sentimenti “soggettivi” che “distribuiamo” come “piace” a noi. Difficilmente la coscienza, però, può identificare un tale modo, alla fine egoistico, di amare – o al contrario odiare – gli altri “come ci pare”. Per questo, Rosmini aggiunge che con l’amore e l’odio «l’intelligenza ha i due elementi necessarî a giudicare della moralità». Ciò significa che oltre l’amore – e il suo contrario, l’odio – ci vuole il giudizio dell’intelligenza, cioè la riflessione oggettiva su tali sentimenti morali. L’intelligenza è quella capacità in noi che sa distinguere tra un’emozione semplicemente individuale, “a nostra disposizione”, e il suo “valore universale”: in quanto sa mettersi “nei panni degli altri”, è l’istanza che discerne se abbiamo a che fare con un sentimento solo individuale o se questo sentimento è espressione di “umanità”. In altre parole, grazie all’intelligenza siamo “capaci di umanità”.

Tentando dunque una sintesi tra queste tre indicazioni, la coscienza esprime questa “capacità di umanità” che inizia con l’esperienza del male nella realtà in senso lato e si coltiva attraverso l’amore e l’empatia, per poi affermarsi grazie all’intelligenza come “riferimento ultimo” delle nostre azioni. Per questa complessità, essa va coltivata ed educata, sempre di nuovo, proprio perché le sfide – individuali, sociali, politiche – di fronte alle quali ci troviamo, sono sempre nuove. Ma ci dà anche la speranza che, nonostante tutto, il senso dell’umanità è radicato dentro di noi e ha sempre la possibilità di prevalere.

foto agi

 

Redazione

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