50 anni di sacerdozio: San Donato di Lecce, 31 maggio 1972 – 2022

50 anni di sacerdozio: San Donato di Lecce, 31 maggio 1972 – 2022

di don Donato De Blasi

Ogni giorno rendo grazie al Signore per il dono del sacerdozio che ha dato un senso alla mia vita. Ma i 50 anni di anniversario dell’ordinazione sacerdotale – avvenuta in San Donato, la sera del 31 Maggio 1972 – sono anche un’occasione per ringraziare le tantissime persone che mi hanno aiutato, sostenuto, incoraggiato, amato.

Ripensando poi agli avvenimenti che hanno caratterizzato e arricchito la mia esistenza, mi sono reso conto che la mia storia, al pari di ognuno di noi, si è modellata su quella del nostro paese, grazie al tesoro di fede, cultura e tradizioni che lo rendono unico, come raccontato sulla rivista “La Farfalla” (Anno XXIII, N. 2, Apr./Mag./Giu. 2022, pp. 2-19), che, da tanti anni, continua a entrare nelle case dei Sandonatesi o in quelle di quanti vivono lontano per ragioni di lavoro o studio.

Gli anni dell’adolescenza Quando nacqui nella piccola casa di Vico San Carlo al n. 2, il sole era già alto nel cielo. Come era allora usanza, papà Giuseppe si mise in cammino tra i vicoli del centro abitato per raggiungere le abitazioni dei parenti ed annunciare l’avvenimento con la mitica frase «É natu! L’imu chiamuatu tunatucciu». In realtà, mi avevano chiamato Donato Cosimo per rendere omaggio ai due nonni. Mia madre Margherita aveva avuto le sue tribolazioni nel darmi alla luce, ma come dice il Vangelo «La donna, quando partorisce, è afflitta perché è giunta la sua ora, ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo».

La mamma andrà sempre fiera del suo primogenito che le somigliava come una goccia d’acqua. Come non ringraziare le “mammane” di allora, le quali erano di grande aiuto nei momenti così belli e delicati. Solo in un secondo mo­mento arrivarono le prime levatri­ci: la Rita a San Donato di Lecce e l’Albi­na alla frazione di Galugnano. Presto la famiglia si allargò e fui fortunato ad avere a fianco il fratel­lo Antonio e le sorelle Anna e Maria Teresa. Ma il dono più grande sono stati i genitori Margherita e Giuseppe. Grazie al loro esempio ed amore profuso, siamo stati introdotti ai misteri della vita, al coraggio, all’onestà ed alla testimonianza cristiana.

In quel periodo, era parroco don Raffaele Di Napoli, un sacerdo­te mite succeduto al grande predecessore  don Donato Nicolaci (papa Tunatu 1908-1929), straordinaria figura colta ed intelligente, bravo scrittore e profondo poeta, così come descritto dal compianto Giovannino De Blasi, storico del Paese.

Primo cittadino era Luigi Mazzeo, detto lu Cappedruzzu perché, sulla testa pelata, portava sempre un visto­so cappello. Era di modi severi e autoritari. Aveva studiato in seminario e, grazie a un minimo di conoscenza del latino, aveva scoperto un certo Luigi Aurino, il quale si era spacciato per prete e aveva ingannato il Vescovo dicendo di aver smarrito i documenti a causa della guerra. Il prelato, senza fare nessuna indagine, lo aveva trasferito a San Donato di Lecce per aiutare l’allora parroco infermo, don Raffaele Di Napoli.

Queste storie si raccontavano in casa, o nelle curti in cerchio con i vi­cini di casa, nelle lunghe serate estive. Non essendoci la televisione, l’in­trattenimento era quello dei racconti, arricchiti sempre di nuovi particolari, riguardanti spesso la vita dei santi, in primis san Donato, i martiri di Otranto, o narrazioni della Bibbia che mio padre aveva ap­preso e memorizzato. Spesso venivano fuori anche i ricor­di della guerra, che io non ave­vo vissuto in prima persona, ma esposti, nella drammatica realtà, da chi era tornato dal fronte.

Mio padre Giuseppe aveva partecipato alla guer­ra d’Africa, era stato deportato e poi liberato. Margherita rac­contava i bombardamenti all’aeroporto di Galatina (distante dal nostro paese 12 km), i momenti in cui si cercava riparo nei rifugi sotterranei, gli strascichi di sofferenza e atroce dolore (madri che avevano per­duto il figlio al fronte, o spose che avevano atteso invano il ri­torno del marito), le file di poveri in attesa del pane razionato con la tessera.

A casa si accendeva il lume perchè non c’era l’elettricità e si emungeva l’acqua piovana dalla cisterna. Tanto dolore ma anche tanta fede tramandata da una generazione all’altra e alimentata dalla preghiera, dalla recita quotidiana del rosario in famiglia e dalla santa Messa domenicale celebrata nella Chiesa parrocchiale, dedicata a Gesù Risorto.

Che i concittadini fossero fortemen­te impregnati di religiosità e attaccamento alla Chiesa, lo vedevo dai simboli religiosi ai crocicchi delle strade, dalle cappelle vo­tive e dalle immagini di santi scolpite e sistemate sulle architravi delle case, che alimentavano la devozione popolare. La statua te santu Tunatu picciccu, insieme alla piccola urna dei Santi Medici, di santa Rita e della Madonna, passava di casa in casa, sostando qualche giorno in quelle abitazio­ni dove soprattutto la malattia aveva colpito.

Non parliamo poi delle innumerevoli novene e cortei accompagnati da preghiere e canti, per alcune delle quali non mancava l’effetto folcloristico come la Focara te sant’Antoniu. Ma, su tutte, primeggiava la processione di San Donato nelle tre versioni di Santa Tunatu ranne, menzanu e picciccu (6, 14 e 28 agosto), che, attraversava il paese, insieme alla banda accom­pagnata dal canto “Noi vogliam Dio” fino alla chiesa parata a festa. I fuochi d’artificio, con il loro bo­ato, somigliante ad una bom­ba, indicavano l’inizio della novena del Pa­trono (per l’occasio­ne, si avvicendavano diverse quotate ditte).

M’incuriosiva non solo il sacrestano, magro come un ago (Lu Pici Signore, papà di Maria), per come confezionava e lanciava nello spazio mortaretti, petardi e girandole e poi salire sul cam­panile per suonare a festa la campana ranne (grande), ma altresì, mi affascinava la processione del Venerdì Santo, che passava davanti a casa, con le statue della Madonna addolorata e di Cristo morto, seguite da uno sciame di fedeli e precedute dai confratelli, i quali m’intimorivano a causa dei camici e cappucci, spesso calati sul viso facendo vedere solo gli occhi.

Il piccolo seme della vocazione Quello che toccò il mio animo fu l’effige del Sacro Cuore  rappresentato su uno stendardo, per la dol­cezza del viso, il colore rosso del cuore e, soprattutto, gli occhi che incontrarono i miei. Subito non successe nulla, ma quello sguardo cominciò a farmi compagnia e a desiderarlo al punto che, quando mi chiesero se avessi voluto diventare chierichetto, aderì subito senza sapere di cosa si trattasse.

In realtà, mi si offriva l’occasione di sperimentare la bellezza del tempio non tanto nella sua maestosità, quanto nella misteriosa presenza del Signore Gesù nella santa eucarestia e nella vita fraterna della comunità cristiana. Diciamo che in chiesa ero di casa, perché con i miei genitori, partecipavo al rito domenicale ed alle lezioni di catechismo. Quando cominciai ad andare a messa da solo, tornato a casa, mamma Marghe­rita pretendeva il sunto della pre­dica che, per fortuna, era in italiano mentre il resto era tutto in latino. Sbagliare allora, significava essere punito con la “ca­rezza te lu scuparieddru”. Da chierichetto ebbi il privilegio di stare sul presbiterio (che dominava l’assemblea) e, soprattutto, accanto al parroco.

Il parroco don Antonio Greco (1942-1993) – Era da poco arrivato il nuovo prelato, uomo affascinante dalla voce squillante, parlata emozionante e due occhi penetranti, mentre la sua altezza diventava ancor più evidente quando metteva sul capo la berretta da prete “a tre pizzi” con il fiocco nero. Proveniva dalla cittadina di Nociglia (LE), dove, due bravissimi genitori (Grazia e Giuseppe) lo avevano indirizzato al sacerdozio. Inizialmente, però, mamma Margherita mi portava a trovare don Raffae­le, in parte paralizzato a causa di un ictus, nonché sofferente per la cattiveria di alcuni che lo avevano preso a sassate. Si era ritirato in via Galugnano, dove celebrava in privato la Santa Messa ed era assistito da due signore, una cieca (la Michelina) e l’altra zoppa (la Pasqualina).

Quando le vedevo camminare da sole, appoggiate una all’altra, mi face­vano pena, ma in seguito capì la grandezza e il valore morale e cristiano di queste due donne: la prima non vedeva, ma camminava con gli occhi della seconda, la quale, viceversa, poteva deambulare solo appoggiandosi all’amica. Quando da sacerdote sono ritornato con tanti fedeli a Lourdes, questa scena mi divenne familiare, perché rappresentava la sintesi della carità cristiana. Come non ringrazia­re queste brave donne e tante altre che si prendono cura dei sacerdoti, i quali non realizzano una propria famiglia perché dedicati alla comunità cristiana.

Anche don Antonio fu accudito e sostenuto, nel corso della sua vita, sia dalla Maria, dalla Edda e da alcuni fa­miliari, i quali, con lui, avevano condiviso, per tan­ti anni, varie vicissitudini, sia dalla generosità di tante persone aiutandolo nella realizzazione dell’Azione Cattolica, tra cui lo straordinario Presidente, Lucio Calderazzo, morto giovane a causa di una caduta proprio nella canonica.

Il parroco era un uomo generoso so­prattutto con i chierichetti, “viziati” con qualche formaggino dal colore giallo e dalle cosiddette gallette (una specie di cracher senza sapore), donati dagli Americani, una volta finita la guerra, al Vaticano e smistati, dal Papa, nelle parrocchie grazie alla Pontificia Opera Assistenza (POA), organismo caritativo assistenziale, erogatore di beni e servizi alle diocesi italiane, antesignano della Caritas, istituita nel 1971. Quanto erano buone quelle gallette!!! Una vera specialità rispetto alla  merenda portata quotidianamente a scuola e costituita da una manciata di fichi secchi.

Una cosa è certa,  frequentando da vicino don Antonio, mi veniva voglia di imitarlo e così, spesso, nel giardino della mia casetta, organizzavo delle messe speciali: chiamavo i coetanei, nonchè le mie sorelle col compito di guidare i canti, mentre mi presentavo vestito avendo come paramenti due asciugamani (uno davanti e l’altro di dietro), tenuti su dalle mollette del bucato. Naturalmente, non mancava la predica, arrangiamento di quelle ascoltate in chiesa. Ma con quanta devozione gli improvvisati fedeli ricevevano la “santa comunione” con le particole ricavate dalle fettine te li cucummari (cetrioli). La prima non la “digeriva” nessuno, ma la seconda almeno era gustosa. Da lontano, Mamma Margherita spiava con un malcelato interesse, ma non si meravigliò affatto quando un giorno gli comunicai che volevo andar in seminario a Otranto per farmi prete.

Mi resi conto subito che altri cinque chierichetti avevano dato la loro adesione, pronti ad intraprendere la strada del sacerdozio. Sicuramente era stata la catechesi dell’arciprete a convincerci, ma anche l’esempio del giovane Franco Rizzo, seminarista da qualche anno, considerato da tutti ormai “un Reveren­do”. Purtroppo tutti si persero per strada, evidentemente destinati ad altre missioni.

Ma ecco i primi problemi: come andare in educandato dove si pagava una retta che non era nelle possibilità di una famiglia dì contadini? Seppi in seguito che entrarono in scena il trio delle mie catechiste: la Nina, la Nena, la Nana (tre anziane e devote “zitelle” che avevano speso la loro vita nella prepa­razione ai sacramenti di generazioni di cristiani), oltre alla Presidente, Vincenza Palmieri (chiamata la Nzina), molto apprezzata dal parroco e dalla comunità per la sua integrità di vita. Fu lei a dire alla mamma: “Margherita non ti preoccupare, ti aiuteremo noi, manda pure lu Tunatucciu al seminario.

Confesso che feci fatica ad adattarmi alle nuove re­gole, all’autorità di illustri sa­cerdoti (alcuni chiamati Monsignori) ed alla scuola, così severa da farmi rimpiangere quella del mio Paese in via Roma, dove ave­vo cominciato a “disporre” le aste, a scrivere i primi dettati, a fare i conti con le dita ed a giocare con i com­pagni a tuddhri cu li cuntrici (cioè, con i sassolini o pezzetti di osso ricavati dal ginocchio dei quadrupedi),  alla campana, etc. Tuttavia, mi ritornava sempre in mente il proverbio popolare, allora molto usato che recitava “É meglio un somaro vivo che un dottore morto”, forse anche per giustificare la difficoltà – causa la povertà – di poter continuare gli studi e accedere all’università.

E poi ancora, mi mancavano la frutta della campagna, le caratteristiche pagliare per giocare a nascondiglio, i fichi, le cornule (carrube), le mbrunelle (prugne) mangiate an­cora tifare (acerbe), le friseddre te uergiu niure (le friselle di orzo nero), la recotta scante (la ricotta forte), gli spintoni dati e ricevuti sul sagrato della chiesa per arraffare qual­che cannellinu gettato sugli sposi, insieme al riso, all’uscita dalla chiesa. D’estate, inoltre, quando il caldo era insoppor­tabile, quanta fatica per racimolare i soldi per un gelatino o le caramelle della Teresina e di suo marito Carmelo. Era il tempo in cui vestivamo alla zua­va, con i pantaloni repezzati (rammendati) che oggi vanno tanto di moda e costano moltissimo.

I primi passi nel seminario di Otranto – Ma per diventare prete occorreva studiare, altrimenti … a casa! Ricordo, però, che a incutermi paura erano le visite improvvise del Vescovo, Mons. Raffaele Calabria. Aveva due occhi che ti impallinavano appena ti guardava. Fu lui che mi vestì, il 19 marzo 1959, con la talare da sacerdote, dicendomi di essere “la pupilla dei suoi occhi”. Non stetti molto a riflettere sui contenuti della frase, ero preoccupato a re­cuperare il ritardo accumulato nello studio, soprattutto di latino e greco. Seppi, in seguito, che in un consiglio di classe si discusse molto sul mio rendimento scolastico, ma il prelato, forte di informazioni di prima mano, disse: «Questo è un bravo seminarista … deve andare avanti».

Mons. Calabria fu trasferito a Benevento, dove, in sostituzione del segretario Mons. Fedele Lazzari di Galatina giunse un vescovo leggendario, dalla storia affascinante, Gaetano Pollio, già prelato missionario di Kaifeng in Cina, ma espulso durante la rivoluzione cinese, dopo aver subi­to il carcere predicando il Vangelo. Affascinato dalla sua storia – raccontata nel libro “Croce d’oro tra le sbarre” –, letta tutta d’un fiato, avevo cominciato a sentire i primi richiami per la Missione. Il Vescovo se n’era accorto e parlando con i superiori, primo fra tutti il mitico rettore don Antonio Pasca, pensava di prendere i contatti con il Pontificio Istituto Missioni Estere  (PIME) – da dove Mons. Pollio proveniva –, sorta con lo scopo sia di aiutare i più svantaggiati nel mondo, sia di diffondere il Vangelo e i suoi valori di solidarietà, amicizia e dialogo.

Determinante fu l’incontro con il cappuccino, Padre lgino Ciabattoni, proveniente dal convento di San Severino Marche. Era un predicatore eccellente, dal carattere volitivo e vena organizzativa: in parrocchia, allestiva il teatro, promuoveva il coro per le celebrazioni, i giochi per i bambini, etc. Era un trascinatore.

Quando don Antonio, per la prima volta mi presentò a lui, il padre mi chiese se volevo far parte di un grup­po di volontari per aiutare chi veniva dimesso dal carcere. Il Rettore non si oppose, anzi si die­de da fare per sganciarmi dal seminario di Otranto e “catapultarmi” in quello di San Severino Marche, poi passare a Camerino per frequentare il Liceo e, infine, continuare gli studi presso i cappuccini di Loreto, dove rimasi quattro anni onde approfondire le tematiche teologiche.

All’ombra della Santa Casa di Loreto Anni ’70 – Furono gli anni più belli della preparazione sacerdotale. Mi adattai alla vita conventuale, con la sveglia alle 5,30 del mattino per pregare nel grande santuario mariano, poi proseguire con la scuola, lo studio, l’accoglienza dei pellegrini e dei malati, i quali, come a Lourdes venivano in pellegrinaggio. Non mancava giorno che non passassi nella santa casa di Nazareth, appoggiato alle pareti annerite dal fumo dei ceri, per immergermi nel cuore della storia della salvezza. Qui ho conosciuto veri santi frati, dediti tutto il giorno alle confessioni, ho avuto come maestri di sacra scrittura il famoso p. Ortensio da Spinetoli e p. Domenico Marinozzi che incontrerò, in Missione, come Vescovo di Soddo in Etiopia.

Nel santuario mariano mi preparai a ricevere gli ordini del suddiaconato e diaconato. Ero pronto al grande passo dell’ordinazione sacerdotale. Ma a decidere il luogo, questa volta fu don Antonio, in quanto era­no trascorsi 70 anni dall’ultima ordinazione nella parrocchia di San Donato di Lecce. Tutti aspettavano questo evento che fu preparato dal parroco e da p. lgino con particolare cura e coinvolgimento dei fedeli.

La sera del 31 maggio 1972, sul sagrato della chiesa, con la partecipazione di tutto il popolo di Dio, le autorità ci­vili capeggiate dal sindaco Benito Perrone, le confraternite ed i rappresentanti dei gruppi sia parrocchiali che della Croce Bianca, mi stesi sulla nuda terra, mentre il coro invocava i santi. L’ar­civescovo di Cameri­no-San Severino Marche, giunto in aereo all’a­eroporto di Galatina, mi unse le mani e, genuflesso da­vanti a lui, mi consegnò il Pane con la Patena e il Calice con il Vino che sa­ranno consacrati nell’a­zione eucaristica. Era il giorno della festa della visitazione della Madon­na e all’omelia insistette molto per indicarmi la strada che dovevo per­correre, portando come esempio la Madonna, allorquando si mise in viaggio per essere di aiuto alla cugina Elisabetta.

Nel cuore della Croce Bianca – Il Vescovo mi aveva tracciato il pro­gramma di vita e io non persi tempo per realizzarlo. La Croce Bianca, con il movimento di volontari protesi verso i poveri e l’apertura di comunità terapeutiche per tossicodipendenti, fu il banco di prova della mia vita sacerdotale. Mi accorsi che la missione di cui mi aveva parlato p. Igino era quella di seguire le orme di Gesù, il quale, come il samaritano, soccorreva l’uomo ferito ed emarginato. Un cammino duro e faticoso, fatto di rinunce, delusioni cocenti, ma anche di intense e piacevoli emozioni ogni qual volta un giovane ritrovava la gioia di vivere, il calore della famiglia ed il rispetto delle persone. In questo modo, vedevo realizzare la storia straordinaria del figliol prodigo.

Riconoscere Gesù nei giovani, i quali avevano avuto il corpo e la mente devastato dall’alcool e dalle droghe, era una prova continua dell’amore verso il Signore. Il Movimento della Croce Bianca, di cui ero diventa­to un cofondatore, insieme ad altri volon­tari (tra cui Antonia, GianPietro, Venanzio, etc.), mi aveva aperto la mente sulle problematiche sociali. L’organizzazione di convegni religioso-sociali, ave­vano portato a San Severino Marche persone di alto profi­lo, noti prelati, penalisti e ministri della repubblica, ma anche giovani provenienti da ogni parte d’Italia, desiderosi di mettersi al servizio della Chiesa, che, con il Concilio Vaticano II, si apriva, da Pio XII fino a papa Francesco, a nuove strade, sempre più aderenti al Vangelo.

Tra questi personaggi, due avevano lasciato un segno nella mia vita: don Giuseppe Girelli (un prete di Verona amico e maestro di p. Igino che aveva speso la sua vita per i carcerati) e p. Mariano da Torino (il frate della tele­visione che ogni martedì entrava nelle case degli italiani col celebre saluto “Pace e Bene”), dichiarati dalla Chiesa venerabili. Per entrambi, fui convocato dal tribunale ecclesiastico per dare una mia testimonianza sulle loro virtù eroiche.

Il vangelo della gioia – Tutto questo non mi aveva fatto dimen­ticare le origini, il paese, la chiesa. Il caro don Antonio aveva ade­rito al movimento della Croce Bianca, sostenendo in tutto p. Igino e facendo nascere il gruppo Croce Bianca (sezione staccata da San Severino Marche), costituito da giovani sensibili al volontariato. Ciò mi permetteva di essere più pre­sente anche in parrocchia per aiutare il parroco, il quale, con il passa­re degli anni. doveva fare i conti con la malattia e so­prattutto con la dialisi. In questo periodo, con i giovani, iniziarono le prime esperienze del Presepe Vivente all’interno dell’edificio sacro e le rappresentazioni della Passione.

Si avviarono le prime proposte educative dei campi scuola nella casa di montagna della Cro­ce Bianca, in località Sassotetto a 1.100 metri s.l.m. Iniziarono i pellegrinaggi e i viaggi di turismo religioso che ci portarono a Lourdes, Roma, Padova, Loreto, Palermo, Arezzo, etc. Si cominciò a stampare “La Farfalla”. Nato come foglio di collegamento tra i volontari, diventò, nel tempo, la voce della comunità sandonatese che arrivava in quasi tutte le famiglie, comprese quelle che, per ragioni di lavoro, vivevano lontano.

Il vangelo della misericordia – Eppure le sorprese non erano finite. Soffrivo, perché non si era ancora realizzato il desiderio di fare l’esperienza missionaria, nata al tempo del vescovo Mons. Gaetano Pollio. Mi venne ancora incontro la Provvidenza tramite un frate, un certo p. Alberto, il quale stava organizzando un viaggio per volontari nella Missione dei Cappuccini nel Sud Etiopia e mi chiese se volevo aggregarmi a loro. Non me lo feci dire due volte. Superai l’emozione di salire, per la prima volta, sull’aereo, né sentì la stanchezza per le sei ore di volo e le altrettante trascorse in macchina che ar­rancava su una strada non asfaltata. Arrivai nel cuore della notte in una città dove mancava sia la corrente elettrica, sia l’acqua.

Le prime luci del mattino mi aprirono gli occhi su un mondo nuovo (l’Africa) e su una realtà dramma­tica: la povertà, a causa della siccità aveva prodotto la piaga della fame ed un numero incalcolabile di morti. Non avevo mai visto tanti bambini denutriti e tante mamme chiedere l’elemosina per sopravvivere. Nono­stante tutto, le chiese, ogni domenica, erano straripanti di gente che pregava per la fine della carestia. Avevo scoperto la gioia e l’entusiasmo di giovani comunità cristiane che non si rassegnavano alla miseria, ma, forti del Vangelo, lottavano per una vita dignitosa e pacifica.

Mi rendevo conto che quella esperienza stava segnando per sempre la mia vita. Tornai a San Severino Marche e organizzai il primo viaggio di ritorno in Missione con 7 giovani ospiti della comunità terapeutica. Sembrava una pazzia portare in Africa persone che avevano abusato di dro­ghe e alcool, ma il Vescovo Mons. Marinozzi, capì che quell’esperimento co­raggioso aveva dell’originale: giovani tossicodipendenti a scuola con i missio­nari, a stretto contatto con i poveri che facevano l’impossibile per conservare la vita, mentre loro l’avevano irresponsabilmente messa a rischio.

Per 10 anni organizzai viaggi di questo tipo con decine e decine di ragazzi, i quali, grazie ai poveri della Missione si erano riconcilia­ti con la vita. Col tempo, mi accorsi che i tossicodipendenti stavano cambiando al pari della comunità, sempre attenta ad annunciare il Vangelo, rendendolo accessibile e credibile, aiutando i bambini a frequentare le scuole degli evangelizzatori e preparando le madri a gestire la famiglia. Soddo, capitale dei popoli del Sud, sembrava un cantiere a cielo aperto. I Missionari sostenevano questo sviluppo, incentrato sulla salute spirituale e materiale delle persone. Nacque così il desiderio di costruire un ospedale che avesse soprattutto a cuore la vita dei bambini e delle loro madri.

Il vescovo missionario, mons. Domenico Marinozzi, fu il capofila di una schiera di volontari italiani che misero a frutto le loro risorse per la costruzione di questo importante e necessario strumento di bene. Pensai, perciò, di conseguire il diploma di infermiere per dare aiuti concreti in questa amara realtà. La possibilità di frequentare l’Università di Medicina di Ancona, mi fece conoscere tanti medici ai quali proposi di diventare volontari in Africa per allargare, anche, il campo delle conoscenze sulle malattie tropicali e prendersi cura della salute di tanti poveri.

Le immagini di povertà che giungevano dalla Missione avevano conquistato il cuore di tante famiglie della parrocchia di San Donato di Lecce, le quali aderirono al “Progetto orfani”, con lo scopo di promuovere l’adozione a distanza, nonché coinvolto le scolaresche impegnate a sostenere i coetanei più sfortunati. Il ruolo importante in queste operazioni fu assunto non solo dalle nuove generazioni di catechiste e soprattutto insegnanti, sensibilissime a queste problematiche che diventava­no oggetto di studio e riflessioni per i ragazzi e le famiglie – capiro­no quanto fosse im­portante, dal punto di vista educativo, l’apertura della men­te e del cuore alla solidarietà –, ma altresì dalle Amministrazioni comunali (con a capo giovani sindaci, nutriti dei valori cristiani) ed iniziative locali da parte di associazioni di volontariato.

Il Presepe vivente e il Museo della Civiltà Contadina – La rappresentazione della nascita di Gesù, partita come una manifestazione sacra all’interno della Chiesa parrocchiale, si è man mano affermata nel centro storico del paese, ormai spopolato. Grazie a numerosi volontari sia sandonatesi che galugnatesi e all’Associazione “Amici del Presepe”, Li cuti te la Serra (le rocce affioranti delle Serre salentine), le pale te le ficalindie (le pale dei fichi d’India) e li imbrici (le tegole) delle vecchie abitazioni diventarono il luogo e gli strumenti di allestimento del Presepe Vivente di San Donato di Lecce (animato da un centinaio di personaggi), che, ogni anno, hanno attirato migliaia di visitatori incantati dalla ma­gia del posto e incuriositi dalle caratteristiche case dove rivivevano antichi mestieri e si gustavano cibi tradizionali. Ma il cuore della manifestazione rimaneva la piccola grotta di Betlemme, dove si alternavano giovani famiglie con il loro neonato, il quale dava il volto a Gesù bambino.

Sono veramente gra­to a quei volontari, i quali, durante questi anni, hanno collaborato generosa­mente sacrifica­ndo tempo e salute, per dare vita ad un evento che ha profuso notorietà e lustro al nostro paese. Dalla loro generosità, è nata un’altra importante realizzazione, il Museo della Civiltà contadina “Terra di Vigliano”, un vero libro aperto dove gli alunni delle scuole vengono a riscoprire il patrimonio storico e culturale del mondo rurale che ha contribuito a forgiare uomini onesti e liberi, con la possibilità di accedere anche all’annessa Biblioteca “Giovanni de Blasi”, memoria storica di cultura e tradizioni affidata alle generazioni future.

Prima di concludere la storia del mio percorso spirituale, vorrei esprimere riconoscenza ai vescovi incontrati per la saggezza dei loro consigli, alle suore (tra cui, sr. Luciana Perrone) che mi hanno sempre accompagnato con la preghiera; a tanti confratelli con i quali ho condiviso il sa­cerdozio – don Antonio Greco e p. Igino, a capo dì una lunga lista che è difficile stilare – ed hanno, con tanta
abnegazione e generosità, sostenuto la fede e la carità operosa della nostra Comunità Cristiana.

Per la costante e disinteressata collaborazione offertami, espressioni di gratitudine rivolgo a don Donato Manca per la condivisione dell’esperienza in Africa; a don Daniele Albanesi molto vicini ai giovani; a don Giuseppe Renna, il quale ora governa con saggezza la confraternita di Galugnano, a don Antonio Jannotti, già cappellano all’aeroporto e sempre disponibile ad aiutare in parrocchia e a don Geraldo Serra. Infine, è doveroso ringraziare don Luca Nuzzaci, attuale guida spirituale della nostra comunità in un momento particolarmente difficile della storia umana, sempre vicino ai problemi delle persone e generoso nel sostenere in Africa i progetti a favo­re dei poveri.

Non può mancare il ringraziamento affettuoso e sentito a tutti i miei compaesani. Per quanto  mi è stato possibile, ho cercato di rendermi presente nelle vicende belle e dolorose della nostra gente. Sono stato ricambiato con altrettanto affetto, comprensione e sostegno. Grazie a loro ho potuto realizzare progetti di sviluppo in una delle terre più povere del mondo, l’Etiopia. Insieme abbiamo fatto sgorgare l’acqua scavando pozzi, in terre considerate desertiche, costruito scuole nei villaggi dove quasi tutti erano analfabeti, dato una famiglia a tanti bambini orfani e curato ferite dove nessu­no aveva portato concreti segni di solidarietà.

A tutti vorrei che giungesse la parola consolante di Gesù «Qualsiasi cosa avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me».

Grazie, grazie, grazie da don Donato De Blasi

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Adele Quaranta

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