Cañada de Gómez

Cañada de Gómez

Secondo gli storici, il nome della città proviene da Miguel Gómez che nel 1750 fondò una delle prime aziende agricole a sud di Santa Fe; da allora la zona fu conosciuta come cañada (territorio molto basso) dei Gómez. Già stazione della linea ferroviaria Rosario – Tortugas a far tempo dal 1866, fu riconosciuta ufficialmente dal 1884 ed attualmente è capoluogo del dipartimento dell’Iriondo.
I primi ad arrivare a Cañada furono i tedeschi, poi, a partire dal 1870 vi si stabilirono francesi, svizzeri ed italiani (gli annali cittadini ricordano Antenore Beltrame, fratello di Achille, noto illustratore della Domenica del Corriere di Milano).
Tra gli italiani di fine secolo è significativa la presenza di lombardi, veneti e piemontesi che riuscirono addirittura ad imporre ai criollos il loro dialetto.
Il nuovo secolo segnò un cambiamento radicale nella provenienza regionale degli immigrati, con un aumento significativo dei marchigiani.
Verso il 1910, tra i suoi abitanti figuravano già i fratelli Torresi che, riunendo parenti vari, diedero vita col tempo ad una delle famiglie più conosciute e numerose della città: si dice che in casa Torresi partorirono in una sola notte ben nove donne!
La persona più importante della famiglia fu senz’altro Luigi, figlio di Costantino e Teresa Pepa, nato a Morrovalle in provincia di Macerata nel 1898 ed emigrato nel 1921, dopo aver combattuto nella prima guerra mondiale.
Nel luglio 1934, scrivendo al fratello Gino rimasto in Italia (l’unico tuttora in vita), maturò il proposito di lasciare a parenti e discendenti una memoria della sua vita.
Luigi aveva frequentato soltanto le prime tre classi delle elementari a San Claudio, frazione di Corridonia, ma sapeva scrivere piuttosto bene e si esprimeva in modo efficace. Non raccontò soltanto le vicende familiari (che ovviamente sono preponderanti), ma avvenimenti religiosi, politici e sociali che riportò da attento osservatore. Colpisce molto la narrazione degli eventi, mai concitata e sempre pacata, anche quando riferisce fatti per lui molto dolorosi.
La lettera che segue è quella che dà il via alle memorie:

“Cañada de Gómez, 25 luglio 1934
Amatissimo fratello e compare
Gino Torresi
Morrovalle

Non ho parole adatte per descrivere la mia contentezza nel ricevere dopo tanto tempo un tuo lungo scritto, pieno di vechi ma bei ricordi, nei quali mi sembra di rivivere leggendo la tua lettera. Tredici anni di lontananza sono passati come per incanto e sembrerebbero un sogno, se non dovessimo volgere lo sguardo indietro e dare un’occhiata al passato.
Ah si! Purtroppo quest’occhiata mi ricorda un insieme di continui dispiaceri che é imposibile enumerare tutti; basta ricordare la morte della nostra amata mamma, che senza dubbio ha lasciato una ferita aperta nei nostri cuori, che non rimarginerá piú. Il medesimo sguardo mi fa pensare che mi allontanai da voi senza pensieri, poiché adesso mi accorgo che i pensieri crescono con gli anni. Adesso, circondato da una moglie e tre figli, mi rendo conto che […] con la presente cercheró di descrivere.
Caro fratello, i primi anni non pochi furono i miei sacrifici, anche perché, partendo dall’Italia, avevo un concetto diverso di quello che mi aceptaba. Ho giá detto che partii senza pensieri ed era vero: non comprendevo bene quello che significas(s)e vivere exclusivamente per conto proprio e dovetti subito provarlo.
Trascorsi, come di costume, dieci o quindici giorni tra feste e banchettii visitando un parente e láltro, ma subito dopo dovetti anch’io, come tutti, incaminarmi sulla via del lavoro, che presto (ho) chiamato “cammino del Calvario”, si comprende facilmente che non é facile assoggettarsi ad un duro lavoro, dopo aver passato quattro anni di vita militare, facendo poco piú della vita del vagabondo. Ricordo, come se foie ieri, che mi presentai a lavorare alla cosecha con le bretelle ai pantalón, scarpe e calzetti e con le mani, che sembravano (quelle di) uno scrivano.
Fatti una risata, compare, come adesso faccio io, pero a quei tempi erano gli altri che ridevano di me. La cosecha passó con non poco sacrificio e con essa passó ugualmente il tempo delle bretelle e dei calcetín. In seguito partii da “cucinero per la machina” sconosciuto in mezo a tanti argentini, che godevano solo quando si trivavano conun povero “gringo” che non conoce la lingua: tutti ti ridono in faccia e questo fa piú male del lavoro piú pesante che vi sia.
Dicevo dentro di me se era possibile che fossi venuto in America per passare da imbecille, ma purtroppo era cosí. Ben presto, peró, acquistai la simpatia di tutti, specialmente del padrone, un buon italiano, che voleva che parlassi sempre con lui del Fascismo e dell’Italia: cosí feci pure la campagna della machina, ma ti assicuro che ritornai a casa dei fratelli sfigurato ed avrei quante volte maledetto l‘America, se non foie stato per il buon guadagno, che in quei tempi si faceva.
Arrivó sucesivamente la nuova raccolta del granturco e cominció un nuovo martirio, tanto che al confronto non mi sembrava neppure un lavoro quello che si faceva in Italia, quando si scamiciava il granturco in mezo ad una festa di suoni e canti e per di piu prendendo gli scartocci sopra la pannella delle donne: allora ci sarebbe stato veramente il motivo di farsi grandi risate. Non ti dico piú niente riguardo al granturco, perché stiamo ormai lontani dall’immaginazione, ma con questa vita trascorsi altri tre anni. Ora mi sono fatto contadino, semino il granturco ma non sono io che lo raccolgo, semino il grano ma non sono io che vado a lavorare alla machina.
Sono contadino, anche se padrone solo di un debito considerevole, mi trovo solo in casa, del tipo de quella che habitaba Peppe di Fabio. In quel tempo ero giá fidanzato con la ragazza che piú tardi doveva essere la compagna di tutta la mia vita, ma parlare di matrimonio era impossibile, perché dovevo migliorare le mie condizioni economiche, teniendo presente il proverbio che dice “Meglio povero io che poveri noi”.
Feci cosí l’anno di prova, aspetando un buon raccolto ma per sfortuna fu uno di quelli piuttosto scarsi. Mi sembra giá che la mia lettera si stia facendo piú lunga che larga ma, approfitando della tua pazienzia e di una di queste lunghe notti di inverno voglio raccontare la storia della mia vita che si puo definire un romanzo. Stavo terminando l’anno di prova, ormai abituato a vivere in una pace di santi, in un silenzio di tomba; la mia famiglia era formata dai seguenti personaggi: un gatto, un cane, dieci cavalli, quattro maiali, una vacca ed un centinaio di galline, fra le quelle non mancavano mai otto o dieci biocche che erano la mia dannazione.
Stanco di continuare la vita solitaria, decisi di sposarmi, quando correva il mese di gennaio del 1925. Il raccolto, come ho giá detto, fu molto scarso, ma, lasciando il debito da una parte, tenevo il denaro necesario per ricevere la nuova padrona di casa. La mia casa, che sino ad allora aveva sempre un aspetto triste e malincolico, risorse a nuova vita e persino i componenti della mia famiglia prima nominati, furoni presi dalla gioia per la presenza della nuova padrona.
Terminata la festa, riprendemmo serenamente il lavoro: la pace e la serenitá erano tra noi, ma céra purtroppo anche il debito, che era aumentato invece di diminuire: per questo incomecio una “luccia sin tregua”. Mi ricordavo allora di zio Isidoro Scarpetta e dicevo con mia moglie: “Cerchiamo di stare attenti, lavoriamo un po’ di piú senza occupare gente di fuori”.
Cosi si fece e si dormiva un po’ meno: la guerra é guerra. Intanto la famiglia aumentava e l’arrivo del piccolo Marcello portó un nuovo raggio di luce nella nostra felicitá. Il nuovo raccolto, buono in tutto, ci lacio respirare a doppi polmoni, dando il primo colpo di grazia a quel l’unico essere, che mangia giorno e notte e che e chiamato con chel bruto nome: debito.
Cominció cosí un nuovo anno ed arrivammo al 1928 con la salute che grazie a Dio ci accompagnava e con raccolti regolari e potemmo perfino vedere per la prima volta la famosa “porta di ferro” chiamata Cassa di Risparmio. Quando ormai eravamo piú ricchi che poveri, la venuta della piccola Velia portó a quattro i componenti della nostra famiglia. Eravamo giunti al 1929 ed ormai potevamo conversare liberamente con tutti, non si parlava piú di sacrificio ma di honesto lavoro e spesso ci vedevamo con la porta di ferro, della qual eravamo diventati amici.
Portroppo, proprio in quell‘anno una grande aventura colpí la tranquillita di noi tutti, la perdita del fratello Giuseppe fu una desolazione generale. Una sola frase si sentiva in tutte le conversazione familiari: “Come fará ad andare avanti la povera Viola con otto figli piccoli?”.
Nessuno riusciva a trovare una soluzione per un problema tanto difficile, finché un giorno io, mezo dalla compasione, manifestai agli altri fratelli e parenti la volontá di vendere tutto, casa e capitale, e di recarmi con la mia famiglia nella casa di Viola, per reggere provvisoriamente il destino anche di quella famiglia.
Pasai due anni in quella casa, facendo tutto quanto mi fu possibile per il buon goberno di tutti. Arrivammo cosí nel anno 1931. Si vendeva allora una “ciachera” ad un chilometro dalla casa di Viola e con il suo beneplácito decisi di comprarla, assicurandole che avrei dato nello stesso tempo uno sguardo ai suoi lavori e ai suoi interessi, insieme ad Alfredo che stava li vicino e dava anche egli qualche consiglio ed offriva qualche servizio. In seguito, a parte il grande dolore per la perdita del povero Peppe, le condizionii finanziaie di Viola miglioravano sempre piú ed i suoi figli crescevano lavoratori e risparmiatori, lasciando ben sperare che dalla buona semente sarebbero nati buoni fruti.
Io e la mia famiglia ci sistemammo nella nuova “ciachera”, con una bellísima casa, piena di ogni comoditá e, sebbene i risparmi di quegli ultimi anni non erano piú tanto buoni, sapemmo sempre conservare el vecchio ed aggiungere un po’ di nuovo. La nuova casa fu subito rallegratta dalla venuta di un terzo figlio, che chiamammo Nelso, ed in seguito a questo aumento non si poteva più viaggiare col biroccino e la cavalla e precisamente fu allora che decidemmo di comprarci un’automobile.
Con l’automobile non si rideva piú delle bretelle e dei calcetín.
Dopo ochi mesi ci togliemmo un altro capricio: comprammo una Radio che ci voleva proprio in una casa bella. Tutto costa, e vero. Ma quando ripenso ai primi anni in America, é anche giusto che oggi ci prendiamo qualche soddisfazione; si dice pure: “Da qui a cent‘anni tanto vale la seta che la stoppa”. Perciò non vale la pena di passare in questo modo una vita da rospi. Non e vero, compare.
Una grandísima festa si celebrara nel mese di ottobre in Buenos Aires, capitale di questa grande Repubblica, e cioé il 32º Congresso Eucaristico Internazionale, non mancheranno rappresentanze di tutte le Nazioni del mondo católico e sicuramente il Congreso sará uno dei più straordinari per il grande numero di pellegrini, che arriveranno da tutto il mondo. Se Dio vorrá, noi fratelli pensiamo di assistere, salvo complicación.
Volevi sapere del fratello Humberto ed allora ti dico che non se la passa male, peró non conoce benne la “porta di ferro”, tanto famosa quando difficile da raggiungere. Posso, peró, assucurarti che noi tutto abbiamo fatto gara per aiutarlo e d‘altronde lavora un buon terreno e tiene ugualmente un buon capitale. Non crediate che sia uno scioperato, anzi tutto il contrario; solamente che i suoi interessi non sono andati tropo bene; la famiglia si é rapidamente moltiplicata e cosí, un po’ per una cosa e un po’ per l‘altra, non ha potuto ancora sollevarsi, ma presto lo vederemo alla pari di noi fratelli.
Caro fratello, mi faresti un gradissimo piacere, se tutto ció ho scritto, lo portassi a conosceza di tutti i familiari, specialmente di Papa, perché sono sicuro che gradirá conoceré intero il mio passato, poiché quanto scrivo é la sacrosanta veritá; tanto dal mio labbro come dal mio cuore escono sempre parole di pura e piena sinceritá, come se fossimo faccia a faccia.
Nella tua ho letto che avete festeggiato il 72 anniversario di nostro padre; sia perció questa mia lunga lettera l’augurio che a nome di tutti, faccio per una sua lunga vita e perché non venga mai a mancargli il dono della salute e sopratutto il rispetto e l‘amore di tutti. Termino, salutandovi tutti, specialmente Papá al quale chiediamo la benedizione io, mia moglie ed i figli che nelle nostre conversación parliamo sempre di voi tutti.
Un forte abraccio dal tuo fratello e compare.
Luigi Torresi”

Foto: Municipalidad de la ciudad

Paola Cecchini

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