l’Australia alla prova elettorale: chi sarà il prossimo premier?

l’Australia alla prova elettorale: chi sarà il prossimo premier?
 “In Australia va in scena l’ultimo atto della campagna elettorale, in vista delle elezioni del 21 maggio prossimo. Gli exit poll vedono il leader dell’opposizione labour Anthony Albanese in leggero vantaggio sul Premier uscente Scott Morrison, ma i Liberal hanno già dimostrato alle scorse elezioni di poter sovvertire i pronostici all’ultimo momento”.
Così scrive Dario Privitera nell’analisi sul prossimo voto pubblicata sul “Caffè Geopolitico”, portale d’informazione dell’omonima associazione presieduta da Davide Tentori..

IL SISTEMA DI VOTO
17 milioni di australiani (su un totale di 25,7 milioni di abitanti) saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento e per suo tramite il nuovo Premier. A distanza di tre anni esatti dall’ultimo voto si ripete il consueto dualismo tra i principali partiti del Paese, vale a dire i Liberal, attualmente al Governo con il Premier uscente Scott Morrison che ambisce alla riconferma, e i Labour capeggiati dal leader dell’opposizione Anthony Albanese, di chiare origini italiane.

Il sistema elettorale australiano ha varie caratteristiche che lo rendono pressoché unico al mondo, a cominciare dall’obbligatorietà del voto. Basti dire che alle scorse elezioni il 92% degli aventi diritto si era recato alle urne per esprimere una preferenza.

I rimanenti elettori avevano presumibilmente presentato una richiesta di esenzione dovuta all’assenza dal Paese, o a motivi di lavoro o salute. Per chi non adempie al dovere di recarsi al voto senza una valida motivazione, è prevista una multa di $91.
In Australia il potere legislativo viene esercitato da un Parlamento che si articola in due rami, il Senato con 72 membri e la Camera dei Rappresentanti (House of Representatives) con 151 membri. La scheda elettorale della Camera dei Rappresentati prevede che gli elettori non esprimano una singola preferenza, ma assegnino un valore, dove 1 rappresenta il massimo e 8 il minimo, agli otto partiti che si presentano alle elezioni.

Un meccanismo simile di applica al Senato, pur con qualche differenza (è obbligatorio votare “solo” sei partiti, sempre in ordine di preferenza). L’altra differenza è che per il Senato è possibile esprimere preferenze nominali, mentre per la Camera si vota solo per i partiti. L’obiettivo di un sistema così complesso è chiaramente quello di raggiungere un consenso quanto più ampio possibile sui candidati che avranno raccolto più preferenze, o che quantomeno siano risultati meno invisi alla maggioranza degli elettori.

L’ultima legislatura ha indubbiamente messo a dura prova la tenuta della leadership del premier uscente Scott Morrison, a capo della coalizione tra Liberali e National Party e vincitore delle scorse elezioni con il 42% di preferenze. Come detto sopra, il principale contendente è Anthony Albanese, leader del primo partito di opposizione, vale a dire il Labour.

Il suo predecessore, Bill Shorten, ottenne nel 2019 un deludente 35% di preferenze, dopo aver guidato da favorito gli exit polls fino al giorno delle elezioni. Il terzo incomodo è tradizionalmente rappresentato dai Verdi (Greens), che nel 2019 avevano raccolto il 10% dei voti, e che sono guidati in queste elezioni da Adam Bandt.

I TEMI DELLA CAMPAGNA ELETTORALE: ECONOMIA E NON SOLO


Quando la notte del 18 maggio 2019 Scott Morrison salì sul palco del comitato elettorale dei Liberal assieme a moglie e figli per ringraziare in diretta televisiva il Paese che lo aveva appena eletto contro ogni pronostico, il nuovo premier non poteva certo immaginare la complessità delle problematiche che di lì a poco avrebbero investito l’Australia e il resto del mondo, a iniziare dalla pandemia di Covid-19.
Il primo “capo d’accusa” che viene mosso al Governo uscente da parte dell’opposizione Labour è rappresentato proprio dalla lentezza con cui il premier Scott Morrison e il Ministro della Salute Greg Hunt hanno garantito all’Australia una adeguata scorta di vaccini e l’avvio della campagna di immunizzazione. Quando il resto dei Paesi occidentali aveva quasi concluso il primo ciclo di vaccinazioni, a maggio del 2021, in Australia si cominciava a somministrare le prime dosi. L’infausta dichiarazione di Scott Morrison resa a inizio pandemia in favore di telecamere, “questa non è una gara” (“this is not a race”), è oggi ripresa dagli spot elettorali dell’opposizione. L’Australia ha indubbiamente fronteggiato bene la pandemia dal punto di vista dell’emergenza sanitaria, con appena 7.500 decessi, ma il Paese ha pagato un enorme prezzo in termini di isolamento, con una pressoché totale chiusura dei confini proseguita fino a ottobre dello scorso anno.
Un altro terreno di scontro elettorale è rappresentato dalle politiche ambientali e dalle risposte al climate change, un tema che in Australia è particolarmente sentito dopo i devastanti incendi che hanno sconvolto larga parte del Paese nel 2020. Anche il 2022, peraltro, ha portato in dote una nuova quota di sconvolgimenti climatici, sotto forma di alluvioni che negli scorsi mesi hanno colpito la parte Sud del Queensland e la costa del New South Wales, inclusa Sydney. Pur avendo in varia misura attenuato le posizioni iniziali di sostanziale minimizzazione del problema, il Governo in carica continua a perseguire una propria agenda climatica che non punta direttamente alla riduzione delle fonti energetiche fossili, ma si basa principalmente su un sistema di incentivi alle nuove tecnologie rinnovabili, che dovrebbero consentire un taglio delle emissioni di gas serra pari al 26% entro il 2030. Un percorso tortuoso, che tiene in forte considerazione le istanze della lobby mineraria particolarmente forte nel Queensland, e che ha relegato l’Australia – in occasione della COP 26 (United Nations Climate Change Conference) dello scorso novembre a Glasgow – al ruolo di Paese conservatore, restio ad adottare politiche innovative in materia climatica. Per altro verso, i Labour hanno annunciato l’ambizioso obiettivo del taglio del 43% delle emissioni di gas serra entro il 2030.
Come in tutte le campagne elettorali, un banco di prova fondamentale per la conferma del Governo in carica è rappresentato dallo stato di salute dell’economia nazionale. Il tasso di inflazione del 5,1% su base annua e la conseguente erosione del potere d’acquisto dei salari non sta certo giovando al Governo in carica, e a poco valgono le spiegazioni dell’esecutivo circa il fatto che il fenomeno è di portata globale e affonda le proprie radici nello shock di offerta dovuto ai recenti avvenimenti in Ucraina. A peggiorare la situazione, ma a queste latitudini nessuno si sognerebbe di gridare al complotto istituzionale, è intervenuta la decisione della Reserve Bank of Australia, che la scorsa settimana ha aumentato – per la prima volta in 11 anni – il tasso di interesse ufficiale di 25 punti base, dallo 0,10% allo 0,35%. Era dal novembre del 2010 che la RBA non interveniva per rialzare i tassi, ma anche in questo caso la scelta era stata da più parti prevista e annunciata come conseguenza della spirale inflazionistica a livello globale.

Il Governo può invece ritenersi tutto sommato soddisfatto dell’andamento dei rimanenti indicatori economici, a cominciare dal tasso di disoccupazione al 4%, a conferma di forte ripresa post crisi anche grazie al sostanzioso piano di incentivi e di aiuti messo in piedi dal Governo nel corso della pandemia, pari a 300 miliardi di dollari australiani. È, tuttavia, chiaro che stavolta il Governo liberale avrà le armi spuntate nel cavalcare un tema tanto caro all’elettorato più conservatore, vale a dire il contenimento del debito pubblico rispetto alle generose politiche di welfare preannunciate dai Labour. Il budget del Governo federale 2021-22 è infatti destinato a chiudersi con un deficit di 80 miliardi, seppure in miglioramento rispetto alle previsioni iniziali.

LA POLITICA INTERNAZIONALE
Un ultimo tema che ha infiammato le ultime settimane di campagna elettorale è rappresentato dalla politica estera. Le Isole Salomone, un piccolo Stato insulare nell’Oceano Pacifico meridionale con poco più di 600mila abitanti, sono diventate il centro del dibattito da quando il Primo Ministro Manasseh Sogavare ha annunciato di aver siglato un protocollo di intesa con la Repubblica Popolare Cinese. I contenuti dell’accordo rimangono tuttora incerti, eppure il timore che serpeggia a Canberra è che il patto non si limiti a una collaborazione rafforzata in materia economica e di polizia, ma possa porre le basi per un insediamento militare o una base della marina cinese ad appena 2mila chilometri dalle coste del Queensland. A poco sono valsi finora i tentativi del premier Scott Morrison e della Ministra degli Esteri Marise Payne di minimizzare la minaccia. L’opposizione sta incalzando il Governo sulla mancanza di una visione strategica nell’area del Pacifico, dove l’Australia ha tradizionalmente da sempre esercitato influenza economica, ma anche militare, con varie missioni di peacekeeping per garantire la stabilità politica dell’area.
Da più parti di sottolinea come la mossa di Pechino sia giunta a poche settimane dalle elezioni, con il chiaro obiettivo di creare un forte terreno di scontro tra i due principali partiti del Paese. È però indubbio come l’Australia si sia fatta trovare impreparata a fronteggiare la crescente minaccia cinese, forse riponendo eccessivo affidamento sui recenti accordi con gli USA e col Regno Unito. Il famoso accordo AUKUS (dall’acronimo dei tre Paesi), siglato lo scorso settembre, dovrebbe garantire all’Australia una cooperazione rafforzata in materia militare e di intelligence, ma ha avuto nell’immediato l’effetto di ritardare l’arrivo e la messa in funzione di vari sistemi di difesa. Emblematico il caso della cancellazione della commessa per i dodici sottomarini convenzionali che era stata affidata nel 2016 ai francesi di Naval Group. L’Australia attende ora lo sviluppo della nuova classe di sottomarini nucleari con Stati Uniti e United Kingdom. Prima consegna prevista: 2036.

APPUNTAMENTO AL 21 MAGGIO
Da ben nove anni l’Australia non esprime un premier laburista: l’ultima fu Julia Gillard (prima donna in Australia) nel 2013. Alle scorse elezioni Scott Morrison, che era subentrato nel ruolo di premier da pochi mesi dopo la caduta del Governo Turnbull, venne confermato a sorpresa, con un distacco netto rispetto allo sfidante Bill Shorten, che gli exit poll davano in leggero vantaggio fino al giorno delle elezioni. Stavolta la forbice di vantaggio per Anthony Albanese sembra più ampia, nell’ordine dei cinque punti percentuali, ma la cronaca elettorale degli ultimi anni – non solo in Australia – ha più volte dimostrato come le intenzioni di voto siano una scienza tutt’altro che esatta.
Con ben due milioni di elettori che hanno scelto di spedire il proprio voto per posta, se la forbice tra i due sfidanti dovesse risultare troppo ravvicinata, è possibile che anche sugli schermi delle tv australiane venga riproposto quello che è stato il ritornello delle ultime elezioni americane: “too close to call”, cioè impossibile decretare un vincitore… almeno fino alla ricezione di tutte le schede. Appuntamento al 21 maggio”. (aise) 

Redazione Radici

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