Ádrian Bravi
Ádrian è originario, per parte di padre, di Sambucheto, frazione di Montecassiano (Mc). Il suo bisnonno si chiamava Luigi.
L’intervista che segue mi è stata rilasciata a Recanati il 18 luglio 2005.
Comincia dal suo bisnonno la storia migratoria della sua famiglia, Ádrian?
Beh, non proprio, anche se ha fatto la golondrina per qualche anno, tra fine Ottocento ed i primi del Novecento. Comincia da Alfredo, uno dei suoi figli.
Quando partì?
Nel 1914. Partì solo e non è più tornato.
Quanti figli aveva il suo bisnonno, oltre ad Alfredo?
Tre: Luigi, Nazzareno e Antonio.
Chi fu il secondo ad emigrare?
Maria, una delle figlie del nonno Nazzareno, la sorella di mio padre.
Che ricordo aveva Maria del viaggio in America?
Un brutto ricordo: durante la traversata non c’era più l’acqua e molti bambini piccoli morirono. Franco, suo figlio, si salvò perché la madre aveva molto latte.
Quando arrivò a Buenos Aires, lo zio Alfredo che avrebbe dovuto andarla a prendere non si presentò, perché aveva avuto un incidente e si era ustionato gravemente.
Lei e il marito erano completamente spaesati e dormirono nella banchina del porto.
Non nell’Hotel de inmigrantes?
No, perché là si andava se non avevi la chiamata, mentre loro l’avevano.
Chi emigrò poi?
Nazzareno, mio nonno.
Come mai?
Nazzareno coltivava con il fratello Antonio un podere di circa dieci ettari che dopo il secondo conflitto mondiale, non era più sufficiente al sostentamento di due famiglie, perché la crisi agraria si fece sentire molto nelle Marche.
Fu Maria a fare la richiesta per il padre?
Sì, per il padre, la madre Amalia, il fratello Enrico di quattordici anni (mio padre), e le sorelle Rita e Delia.
Come aveva organizzato la partenza suo nonno?
Prima di partire aveva venduto il suo terreno al fratello ed aveva affidato quanto ricavato (da cui aveva prelevato il denaro per i passaggi) al suo amico Paolo che partiva prima di lui per l’Argentina. Lo riteneva più abile nell’investire quel denaro a suo nome ma fu un’ingenuità grande, perché in realtà quei soldi non li riprese più e dovette ricominciare tutto daccapo, da zero.
Dove si trasferirono?
Da contadino che era nelle Marche, divenne barquero (traghettatore). Io non l’ho conosciuto, morì nel 1963. Si trasferirono a Tigre, sulla foce del delta del Paraná, a ventotto chilometri dalla capitale.
E le figlie?
Da sposate andarono ad abitare a Hurlingan, vicino a Villa Devoto, nota per il carcere.
E suo padre? Dove lavorava?
Nella Fiat di Caseros, vicino a Villa Devoto. Là si sposò con Costanza, mia madre ed andarono ad abitare a San Fernando.
Vicino a Tigre, vero?
Sì, la casa si allagava spessissimo perché si trovava nella parte bassa del fiume; anni dopo siamo stati costretti a venderla e ci siamo trasferiti a Santo Lugares, a circa trenta metri dalla casa dello scrittore Ernesto Sábato. Anche noi vicino alla Fiat, nella zona ovest della capitale.
Che mi racconta di suo padre?
Durante il periodo della dittatura, mio padre fu perseguitato: nell’azienda sovrintendeva quaranta persone ed era dalla parte degli operai.
In quel periodo aveva denunciato la Fiat per diversi motivi: perché era stato accertato che il pulviscolo di piombo che si respirava nella fabbrica penetrava nel sangue; per l’inquinamento acustico oltre i livelli di guardia; per la liquidazione che gli avevano dato, in pratica una parte soltanto di quanto dovutogli.
Perse tutte e tre le cause perché (si venne a sapere in seguito) il suo avvocato si era venduto: infatti un altro gruppo di dipendenti, patrocinato da altro legale, vinse la causa ed ottenne così un sacco di soldi a titolo di risarcimento.
Cosa successe poi?
Durante il governo militare lo licenziarono in tronco vietandogli l’accesso in fabbrica. Da quel momento ha lavorato come carrozziere fino al 1989.
E lei, Ádrian, quando è venuto in Italia?
Nel 1987, a ventiquattro anni, sono venuto per la prima volta; volevo viaggiare e vedere se potevo continuare qui gli studi.
Il mio viaggio era stato facilitato e patrocinato dall’incontro tra Alfredo e Antonio, gli zii di mio padre, che si erano rincontrati nel 1984 dopo circa settant’anni.
Sono venuto anche perché uno dei miei amici, Gustavo, si trovava qui da un paio di anni e mi aveva invitato a lavorare ad Alassio dove risiedeva.
Si è fermato nelle Marche, però.
I miei parenti di Recanati hanno insistito molto affinché restassi: avrei potuto in effetti lavorare in un bar e studiare nello stesso tempo, cosa che ho fatto laureandomi in filosofia a Macerata.
Non è mai tornato in Argentina?
Sì, nell’88, per vedere i miei. Ed in quell’occasione mio padre ha pensato di tornare pure lui. E così ha fatto. Mia madre e mia sorella sono arrivate in seguito.
Ha lavorato in Italia suo padre?
Certo che sì, i parenti l’hanno aiutato a cercare un lavoro. L’ha trovato presso la Teuco di Montelupone.
Come si è trovato nelle Marche dopo tanto tempo?
E’ tornato dopo quarant’anni; riconosceva i luoghi ma li trovava molto cambiati. Quando era in Argentina aveva nostalgia del suo paese, ma sicuramente se io non fossi venuto qua, non sarebbe tornato: sono stato il polo di attrazione. In Argentina, specie durante la dittatura, non c’era sicurezza economica e sociale, per cui qui mi è apparso più sereno, rilassato come poche volte l’avevo visto; come dire, il luogo gli era sempre appartenuto.
Ricordava l’italiano?
Lo ha dovuto imparare di nuovo, lo aveva dimenticato.
E sua madre è stata contenta di venire?
All’inizio era un po’ scettica; d’altronde lei viveva in Argentina fin da piccolissima. E’ nata a Riccia, l’ultimo paese molisano prima della Campania, un piccolo paese sulla montagna; a quel tempo, capirà, era pieno di disagi, per cui la sua famiglia era stata molto contenta di emigrare in Argentina. Era andata a vivere direttamente a Buenos Aires, nel quartiere San Telmo, dove abitavano i loro parenti.
E lei dove lavora Ádrian?
Lavoro all’Università di Macerata, sia per la biblioteca Barnave, dove catalogo testi antichi, che per la Facoltà di diritto romano.
Ma nel tempo libero scrivo: nel 1999 ho pubblicato il mio primo romanzo, Rio Sauce, per i tipi delle Ediciónes Paradiso di Buenos Aires.
Di che tratta?
E’ la storia di una famiglia che vive in un paese precario con diverse inondazioni e nonostante ciò non vuole lasciare la propria casa.
Dopo quello che mi ha raccontato, mi sembra una storia autobiografica…
Un po’. Dal 2000 – l’anno in cui sono diventato papà di Santiago – scrivo in italiano e quest’anno è uscito il mio primo romanzo nella vostra lingua (ora anche mia) per i tipi della Fernandel di Ravenna. Si intitola Restituitemi il cappotto.
E’ contento di essersi stabilito in Italia?
Sì. Sono riuscito a trasferire qui la mia famiglia d’origine, a farmene una propria ed ho conosciuto tante persone interessanti, tra cui Adelaide Gigli. Adelaide ora è molto malata, ma è stata un punto di riferimento importantissimo per me: attraverso i suoi libri ho scoperto la vera storia argentina e non quella che ho studiato a scuola.
Nel centro di Recanati c’è un bel giardino, un’aula verde direi, dedicata ai figli di Adelaide, desaparecidos. Si chiama Il giardino delle parole interrotte.
La frase scolpita l’ho scritta io:
Le parole interrotte
i sentieri scomparsi
nulla può fermare
la mano che incide la storia.
Paola Cecchini