Guagnano e le certificazioni religiose (Kasherut dei vini del Salento)

Guagnano e le certificazioni religiose (Kasherut dei vini del Salento)

 

di Adele Quaranta

Guagnano ricade nella sezione settentrionale della provincia di Lecce (dal capoluogo dista 24 km), confina con quella di Brindisi e, alla fine del 2021, annovera, 5.519 abitanti, compresi quelli della frazione Villa Baldassarri (il nome richiama la famiglia feudataria leccese dei Baldassarro, proprietari del casale).

Il toponimo Vanianum – che sembra essere più pertinente ad un fondo rustico che ad un abitato –, era molto usato nel mondo romano, in quanto indicava le terre assegnate a cittadini e centurioni, dopo il congedo militare (i nomi dei paesi terminanti con il suffisso “ano” è tipico dell’istmo salentino). Abitata da coloni e agricoltori, a causa dell’aria malsana, scaturita dalla presenza di paludi, fu dapprima abbandonata e poi ripopolata nei primi anni del ‘900, dopo gli interventi di bonifica che evidenziarono la notevole fertilità del terreno.

Dal punto di vista etimologico, il toponimo richiama, anche, in merito, la fertilità e redditività dei terreni, un’ipotetica origine francese – con contaminazioni francofone legate, peraltro, alla lingua latina – scaturita dal verbo gagner (guadagnare), o dal sostantivo gagnage (pascolo). Da tale ipotesi, emerge che l’origine di Guagnano è medioevale (periodo normanno-svevo).

La struttura urbanistica del centro abitato, ha subito, comunque, una profonda trasformazione, soprattutto prima del 1798, anno di ricostruzione, durata un quarantennio, della Chiesa principale, dedicata a SANTA MARIA ASSUNTA. Occupa un lato della piazza centrale del paese, di cui è diventata il cuore pulsante, allo scopo di ospitare i fedeli e soddisfare le esigenze religiose di una comunità in continua ascesa in termini demografici.

L’edificio sacro che ingloba un altro più antico – di esso si conserva un muro con l’immagine della Vergine del Rosario affrescata – presenta la facciata rivolta verso Oriente, mentre l’ambiente interno, riccamente decorato, è a pianta longitudinale (40 x 19 mt), ripartito in 3 navate (una mediana e due laterali) ed ospita, il transetto, il rinascimentale battistero, l’organo e gli altari settecenteschi sotto il titolo del Crocefisso.

La copertura – a volta – risalente alla fine del XIX secolo, è sostenuta da archi rampanti e tiranti in ferro, per rinforzare i muri portanti dell’edificio e le esili pareti, oggetto di diversi interventi di restauro (i principali sono avvenuti nel 1898, 1923 e 1981).

L’ossatura socio-economico-produttiva di Guagnano (culla del Negroamaro), dove viene prodotta uva da tavola e da vino, è profondamente diversa da quella del passato, perchè, circa mezzo secolo fa, la popolazione si dedicava prevalentemente all’agricoltura, basata sulla coltivazione dell’ulivo (prima dell’arrivo della Xilella), fruttiferi, graminacee, ortive, tabacco e, soprattutto, vite.

I viticoltori locali producono ed esportano vini di elevate qualità, ulteriormente valorizzati puntando su diversi eventi, tra cui, in particolare, degustazioni, escursioni guidate sul territorio comunale – caratterizzato da aree investite a vitigni autoctoni, masserie, casine di campagne, etc. – e visite al MUSEO CENTRO STUDI DEL NEGROAMARO, struttura, ospitata nei locali di un ex palmento, che consente, ai partecipanti, di ripercorrere i ritmi millenari del tempo e di scoprire sia gli antichi mestieri e le peculiarità della società contadina, sia il patrimonio storico-artistico-architettonico cittadino.

La ricostruzione delle fasi produttivo-enologiche (dalla coltura della vite all’imbottigliamento del prodotto finito) e l’esposizione delle relative attrezzature (compresi gli arnesi di lavoro), attestano l’operosità della comunità, l’esperienza agricola (tramandata da padre in figlio), il religioso rispetto delle peculiarità territoriali (oggi saccheggiate dall’invadente processo antropico), nonché la laboriosa e dura fatica dei contadini, i quali hanno disegnato un paesaggio unico ed originale, armonizzato non solo con le caratteristiche dell’ambiente naturale, le vicende storiche, la lotta per la sopravvivenza, tensioni per il possesso della terra e gestione dell’acqua, ma anche con gli usi, costumi, tradizioni, principi morali, generi di vita, etc.

Nella periferia a Nord-Ovest della cittadina, ricade l’EREMO DI VINCENT (il nome richiama a Vincenzo Maria Brunetti, in arte Vincent), pittore, scultore e architetto italiano, ritenuto uno dei più emblematici ed eccentrici artisti meridionali. Estremizza, infatti, la cura delle sue opere intervenendo, persino, sulle cornici e sostiene che l’autore deve trasformare la propria vita in un’opera d’arte, sintonizzandosi con l’energia e l’espressione fantastica emersa dalla quiete di un luogo.

La casa-museo, estesa su una superficie di 3.000 mq, dove pietre, mattonelle e tasselli sono trasposti nell’ottica di una visione artistica ancorata all’accoglienza, estrosità, fantasia e bellezza, è aperta ai visitatori accorsi ad ammirare le esposizioni, oppure ad assistere, in tempo reale, alle creazioni avvolte in atmosfere di gioiose danze propiziatorie, dove l’autore evidenzia sia il proprio desiderio di libertà assoluta, sia quello di lanciarsi in volo, non più oberato dal peso della materia. Da queste enunciazioni poetiche, scaturisce l’appellativo, attribuito a Vincent, di “Libellula del sud”.

I palazzi baronali di questo centro abitato sono dotati di coperture con volte a botte ed a stella, balconate rette da mensole, affreschi e decori in stile liberty, scalinate barocche per accedere ai piani superiori, eleganti patii classicheggianti sostenuti da colonne doriche, portoni sormontati da stemmi nobiliari, terrazzi arricchiti da porticati (ornati con elementi decorativi cinquecenteschi), etc.

La minuziosa cura relativa al centro urbano viene riscontrata anche nella parte restante del territorio (caratterizzata dalla presenza della coltura intensiva della vite). Le campagne sono punteggiate, infatti, da muretti e case rurali, edificati con pietre calcaree a secco, provenienti dal dissodamento e bonifica del terreno. Le masserie, legate al latifondo, oltre alla funzione difensiva, svolgevano anche quelle prettamente economiche, in quanto, nell’Ottocento, il latifondista si trasferiva dalla città nelle grandi aziende agricole – abitate da proprietari terrieri, contadini, massari, salariati fissi e lavoranti ausiliari e dotate di ambienti adibiti alla trasformazione dei prodotti (frantoi, mulini, depositi per foraggi, palmenti, etc.) –, nel periodo  della vendemmia e, in genere, della raccolta delle derrate alimentari.

Oggi, molte strutture sono in stato di abbandono, mentre altre, restaurate, sono state riutilizzate come aziende agrituristiche, abitazioni confortevoli, alberghi di campagna, maneggi, ristoranti, agriturismi, oppure, trasformate in floride e moderne imprese agricole, in grado di valorizzare i terreni con l’insediamento di nuovi ordinamenti colturali e l’utilizzazione di forme di conduzione diverse da quelle del passato.

La spiccata vocazione viticola del territorio e la ricerca di una vita più dignitosa, hanno favorito la diffusione nel Salento, a partire dal secolo XIX, l’espansione del settore vitivinicolo, anche se, almeno nella fase iniziale, il prodotto finale non era pregiato, in quanto si puntava sull’obiettivo quantitativo a scapito di quello qualitativo. Col passare degli anni, con il superamento di molteplici difficoltà ed il forte senso di appartenenza, i proprietari terrieri ed i contadini hanno saputo domare un territorio aspro e siccitoso, creando le condizioni ottimali per lo sfruttamento di derrate agricole di qualità sempre piè elevate per la produzione di vini pregiati, esportati, con l’andar del tempo, in tutto il mondo.

In un periodo di crisi ambientale (riduzione delle precipitazioni, aumento dei periodi siccitosi, cambiamenti climatici, dissesto idrogeologico, inondazioni ed uragani, etc.), sanitaria (pandemia da coronavirus), produttiva (difficoltà economiche, aumento dei prezzi e dell’inflazione) e antropica (guerra Russia-Ucraina) come quello attuale, l’area mediterranea, in particolare, è caratterizzata da una profonda e diffusa incertezza, come emerso da un’indagine Nomisma – punto di riferimento in molti settori chiave dell’economia –, incentrata su un panel di 165 aziende.

Gli “osservatori”, che fotografano dimensioni e trend dei principali segmenti di mercato, hanno messo, infatti, in luce le problematiche strutturali e dimensionali di cui soffre il sistema produttivo italiano, tra cui la ridotta diversificazione dei mercati e dei canali commerciali. Tali problematiche hanno interessato anche i territori del vino e messo in crisi le piccole imprese impegnate, soprattutto, nel settore dell’export. Quelle attive nelle aree vitate guagnanesi, tuttavia, evidenziano una fase di ripresa, grazie anche ad interventi di sostegno pubblici.

Il tradizionale alberello pugliese ha origini molto antiche e sviluppo contenuto della pianta (Foto F. Leuci).

A Guagnano, la vinificazione avviene in moderne cantine, dove, dalle pregiate uve, dopo un’accurata selezione con metodi tradizionali, si producono vini di qualità, contraddistinti da marchi che, da un lato, attestano la tipicità del territorio, il lavoro in campagna e la salvaguardia della salute dei consumatori e, dall’altro, assicurano l’implementazione di un sistema di tracciabilità in grado di documentare la corretta gestione del processo e l’applicazione dei requisiti previsti dai protocolli.

Nel settore vitivinicolo, operano le CANTINE LEUCI, nate nel 1924 per produrre vini da taglio. Il complesso aziendale – condotto, da padre in figlio, per tre generazioni, con impegno, dedizione e l’obiettivo di vinificare uve dei propri vigneti – ha puntato su produzioni enologiche eccellenti, ancorate al patrimonio culturale delle comunità locali, ai luoghi della terra di origine dal fascino e bellezza indiscutibili, alla storia ed alle tradizionali tecniche di coltivazione della vite e di vinificazione, create nel corso dei secoli.

L’azienda opera in un’area ricadente tra le province di Lecce e Brindisi ed utilizza una superficie, di circa 30 ettari, costituita da terreni pianeggianti, in gran parte di proprietà ed ubicati nei comuni di Guagnano (LE) e di San Pancrazio Salentino (BR). La capacità produttiva annuale supera le 100.000 bottiglie sia Kosher che convenzionali, scaturite dalla trasformazione di circa 1.000 q di uva, di cui, circa il 40%, venduto sul mercato locale e la quota restante esportata.

Il punto di raccolta e vinificazione delle uve è situato nella cantina ubicata nel primo centro abitato, mentre il prodotto finito è rappresentato da vini DOP e  IGP Salento, rossi, bianchi e rosati (i primi hanno un tasso alcolico pari a 14,0° Vol., valore che, negli altri due, si aggira intorno ai 13,0° Vol.). Il sesto d’impianto dei vigneti più vetusti ha un’età media di circa 40 anni, mentre quello tipico tradizionale è rappresentato dall’alberello pugliese, che, da un lato, dà rese in uva per ettaro molto basse e, dall’altro, una materia prima di eccellente qualità.

Dall’analisi delle caratteristiche essenziali evidenziate dalla triade enologica, in precedenza menzionata, emerge che i Rossi, scaturiti da vitigni autoctoni – Negroamaro e Primitivo, importanti vitigni salentini ormai ben noti a livello globale –, sono vinificati ad una temperatura di 25 °C, affinché conservino il caratteristico colore rubino e la tipicità dei profumi, invecchiano nel corso di un biennio e trascorrono un periodo di  mesi in barriques di rovere francese, per completare l’affinamento e renderli vellutati, morbidi ed eleganti.

I Bianchi derivano, invece, in prevalenza, da uve Chardonnay e Fiano, diraspate lasciando integro l’acino e separando, immediatamente, le bucce dal mosto, mentre la vinificazione avviene ad una temperatura di 14 °C per un periodo compreso fra 20-30 giorni.

I Rosati scaturiscono, infine, da uve di Negroamaro, mediante “salasso”, metodo di trasformazione dell’uva in vino (e del suo affinamento), tipico del sistema enologico salentino, che consente di scegliere la tonalità dei colori, determinata dal tempo di macerazione delle uve.

Nel 2013, l’incontro con la cultura ebraica e l’incoraggiamento ricevuto, all’epoca, dal Rabbino protempore Bahbout, hanno indotto il proprietario dell’azienda a destinare un’accurata selezione di uve alla produzione di vini Kosher for Passover, prodotti secondo i tradizionali protocolli imposti dalla religione ebraica. Le uve possono essere trattate, infatti, solo da ebrei ortodossi, i quali rispettano i canoni religiosi del sabato) e seguono antiche regole alimentari dettate dai sacri testi. Sono gli unici, infatti, a maneggiare i grappoli dall’ingresso in cantina e a utilizzare attrezzature e contenitori di vinificazione.

L’intero processo produttivo viene, quindi, “certificato” dal Rabbino, il quale controlla non solo le fasi lavorative fino all’ imbottigliamento dei vini – consumati, soprattutto, durante le festività ebraiche, tra cui Capodanno e Pasqua –, ma anche i tubi, i grandi contenitori di acciaio che ospitano il mosto, le valvole, il lavaggio degli impianti, le pompe ed i raccordi, perchè, se manipolati da altri, comprometterebbero l’intera vasca di produzione.

Tra i principali prodotti, ricordiamo il “Vinea Electa Chardonnay IGP Salento” (dal colore giallo paglierino, profumo di un bouquet di fiori mediterranei e miele, elevata versatilità e, allo stesso tempo, grande impatto olfattivo); il “Sassi del Salento Primitivo IGP Salento” – dal colore rosso rubino intenso – che proviene da uve primitive raccolte manualmente, di solito nei primi giorni di settembre e coltivate a cordone speronato; il “Terra Guaniani Salice Salentino Rosso DOP” (prodotto armonico, aromatico e vellutato, conserva tutti i profumi tipici da cui proviene e contiene un importante tenore alcolico), ottenuto dalla vinificazione delle migliori uve di Negroamaro, raccolte manualmente ai primi di ottobre ed “allevate” con il sistema a spalliera. Negli ultimi  anni, l’impegno è aumentato costantemente, tanto che, ad oggi, l’azienda produce vini distinti fra autoctoni e convenzionali.

Il culto ebraico è essenzialmente preghiera. Il giorno festivo è il sabato, consacrato alla memoria e al rispetto del riposo divino dopo la creazione. In questo giorno, agli ebrei è vietato compiere qualunque tipo di lavoro, inteso come tutto ciò che, in qualche modo, cambia o crea l’ordine delle cose. Nella tradizione ebraica la preghiera in sinagoga è riservata agli uomini, mentre le donne non hanno alcun ruolo nel culto e, in genere, restano preposte alla casa e all’educazione dei figli.

Non solo il vino, viene sottoposto alla scrupolosa tracciabilità rabbinica, in quanto non può venire in contatto, durante l’elaborazione, con lievitati di alcun tipo (pane, pasta o frumento), ma è vietato anche l’uso di albumine, caseina, gelatine o emulsionanti, etc. Altresì, devono attenersi alle regole alimentari dell’ebraismo le bevande alcoliche, come cognac, brandy e whisky (spesso miscelati con il vino), marmellate, bibite gassate, ghiaccioli, caramelle, frutta confezionata, succhi di frutta, punch alla frutta e limonata, le aringhe in salsa di vino, etc.

In generale, il popolo ebraico può consumare cibo solo osservando il Kashruth, secondo le regole alimentari stabilite nella Bibbia e rigidamente disciplinate dalla Torah (il testo sacro per antonomasia), ossia l’insieme degli insegnamenti e prescrizioni – raccolti nei cinque libri del Pentateuco – rivelati da Dio al popolo d’Israele, attraverso Mosè, sul Monte Sinai, 49 giorni dopo la fuga dall’Egitto. Il cibo che risponde a tali requisiti, è definito kasher (significa letteralmente “adatto alla consumazione”), la cui osservanza è un segno distintivo dell’identità ebraica.

Per realizzare un pasto destinato al consumo di un ebreo, è necessaria, pertanto, una grande dimestichezza con i vari dettami. Da ciò scaturisce la presenza, nei ristoranti e stabilimenti industriali kosher, di un sorvegliante con il compito di fare rispettare i principi dell’alimentazione, nonché garantire al consumatore la kasherut dei prodotti alimentari (oggi, in tutto il mondo, sono operativi 1.074 enti di certificazione kosher). In particolare, è essenziale che le bottiglie contengano almeno due sigilli di kasherut, impressi sul tappo, sull’etichetta e retroetichetta, oltre al marchio del Rabbinato.

L’ebreo non circoscrive la santità ai luoghi e tempi situati al di fuori del quotidiano, ma la estende alla totalità della vita individuale e collettiva, ritenuta uno sforzo sacro. Per questo motivo, anche l’attività, apparentemente banale, del mangiare è un atto divino, tipico della religione e cultura ebraica. Pertanto, fondamentale risulta l’autorevolezza del Rabbino certificatore, da cui deriva la garanzia del prodotto kosher, in nome di un precetto religioso.

La differenza tra il vino ad “uso sacramentale” e quello “convenzionale” sta, in definitiva, nella supervisione rabbinica durante il processo di trasformazione, in quanto solamente gli ebrei osservanti dello Shabbat – o Rabbini controllori (Masghia) – possono maneggiare ed aprire le bottiglie e versare il prodotto (Foto F. Leuci).

Mediante il processo di pastorizzazione, effettuato sempre da persone autorizzate, il vino diviene Mevushal (in ebraico significa “cotto”). In questo modo, il prodotto, oltre che idoneo, può essere manipolato anche da ebrei non praticanti o da consumatori di altre religioni, in quanto perde la sua sacralità e risulta alterato nella sua essenza spirituale. Ciò significa, che chiunque può aprire una bottiglia di vino Mevushal senza contraffarne lo stato kosher. Le sale di ristorazione ritengono vantaggiosa questa procedura, in quanto consente l’utilizzazione di camerieri e personale non necessariamente di religione ebraica.

Occorre ricordare che la Puglia e il Salento sono anche terre di preziosi oli di oliva. Da ciò il desiderio, da parte dell’azienda Cantine Leuci, di produrre anche olio extra vergine kasher “Le Pesach” (certificato da Badatz Beit Yosef, a garanzia del rispetto di un antico precetto religioso), ottenuto nel frantoio oleario di famiglia. Le migliori olive “Cellina di Nardò” (sopravissute alla Xylella) insieme alla varietà “Leccino” (resistenti, per fortuna, al batterio)  raccolte unicamente con metodi meccanici e molite a freddo nel frantoio dell’azienda, sotto la supervisione di Rav Mordechai Sebbah –, hanno consentito di ottenere un prodotto oleario di straordinaria qualità e idoneo alla Pasqua ebraica.

Per concludere, sebbene da decenni, la civiltà contadina sia ormai quasi completamente scomparsa, a causa dell’intenso processo di trasformazione socio-culturale, del flusso migratorio che ha svuotato i piccoli e medi centri urbani, nonché dell’espansione della globalizzazione responsabile, in larga parte, della mistificazione delle identità e specificità territoriali costruite nel corso dei secoli, vecchio e nuovo, tradizione e modernizzazione, imprenditorialità ed interdisciplinarietà, convivono armonicamente nell’ambito delle attività produttive delle Cantine Leuci, impegnata sia a tutelare ed esaltare la tipicità dei vini ed oli salentini connessi alla storia del territorio locale ed alle eredità dei padri, sia a preservare un patrimonio inestimabile di saperi e valori socio-culturali, da vivere, promuovere e custodire per il futuro.

L’impresa spazia su un ampio ventaglio di iniziative che vanno dalle degustazioni nei locali di affinamento, all’ampliamento verso uno specifico mercato in lenta ma costante espansione (i vini kosher prodotti secondo le regole della religione ebraica), dalla partecipazione a numerosi eventi e fiere – tra cui, il “Cibus” di Parma, il “Vinitaly” di Verona e il “Kosherfest” (si svolge nel New Jersey), vetrine in grado di mettere in risalto le bellezze e potenzialità di quest’area salentina a livello nazionale ed internazionale –, all’innovazione tecnologica, dal rapporto con associazioni ed enti presenti nel Salento, alla ricerca di tecniche specifiche e collaborazioni, con l’Università di Bari, nell’ambito del progetto relativo alle “Certificazioni religiose”.

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Adele Quaranta

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