BELGIO (7.La catastrophe des italiens)

BELGIO (7.La catastrophe des italiens)

di Paola Cecchini

Sono sette al piano 1035, sette uomini con venti cavalli, quando l’addetto alle bestie entra all’improvviso nella galleria gridando:
-C’è il fuoco. Venite a vedere nel bouveau!
Sono in otto a precipitarsi verso il vano dell’ascensore in mezzo al fumo opaco e soffocante.
Pigiati l’uno contro l’altro, tossendo, tirano quattro volte il cordone del campanello, come da regolamento. Invano. L’ascensore rimane immobile.
Uno di essi, Marceau Caillard, si decide ed esce per azionare il campanello grande, riservato alle occasioni più gravi.
L’ascensore risale all’improvviso, lasciandolo a terra.
Alle otto e mezza gli scampati sbucano all’uscita della miniera urlando:
-Brucia!
Sono le prime parole di una tragedia che farà balzare Marcinelle, minuscolo paese alla periferia di Charleroi, al centro della cronaca nazionale ed estera.

Saint Charles de Charbonnages de Bois du Cazier (il nome della miniera) brucia ormai da qualche ora e 270 uomini sono imprigionati sottoterra.
Mentre arrivano le prime autorità regionali e vengono organizzati i soccorsi per domare il fuoco che resisterà oltre ottanta ore, in superficie la catastrofe ha un volto.
Nella strada di lastrico rugoso, sbarrata dalle rotaie, centinaia di persone si accalcano in silenzio. Incollate ai cancelli, dai loro volti traspare il dubbio, il presentimento, la paura immobile, l’angoscia che grida. Su tutto prevale lo stupore.
Nel frattempo i sopravvissuti sono spariti, dopo esser stati sequestrati da picchetti militari. I soccorritori vengono prelevati all’uscita del pozzo ed accompagnati negli uffici della direzione, affinché non parlino con nessuno. I fotografi che hanno scattato qualche foto sono stati arrestati ed espulsi dal Paese.

La versione ufficiale dei fatti arriva dal direttore generale della miniera, Van Den Heuvel: l’ascensorista al livello 975, Antonio Iannetta, avrebbe spinto un carrello nella cage (gabbia) e schiacciato il pulsante di avvio. Poiché era stato fissato male, il carrello si sarebbe spostato urtando un cavo elettrico a 3000 volt, da cui si è sprigionata una scintilla provocando un corto circuito.
Iannetta, divenuto il capro espiatorio della tragedia, risulta introvabile (partirà di notte con tutta la famiglia per il Canada, paese verso cui aveva già inoltrato la richiesta di espatrio. Le pratiche furono accelerate dalle autorità locali).
Non esiste alcuna prova che il carrello sia uscito dai binari perché inserito male dal minatore italiano e non perché, magari, fosse difettoso il gancio. Le domande che ci si pone sono tante: perché i soccorsi sono partiti alle 11,30, con tre ore di ritardo? Perché è stato rifiutato in un primo tempo l’aiuto dei soccorritori stranieri, meglio equipaggiati? Perché al fondo non c’erano estintori e nessuno era dotato di attrezzature ignifughe?
Sono interrogativi destinati a rimanere senza risposta.

L’unica certezza è che il pozzo, in funzione dal 1822, presenta un’aberrazione fatale: i cavi elettrici ad alta tensione che sono stati trinciati sono posti a distanza molto ravvicinata alla condotta dell’olio della bilancia idraulica ed alle condotte dell’aria compressa che alimentano gli utensili a pressione sul fondo.
Il corto circuito ha appiccato il fuoco agli ottocento litri di olio polverizzato ed alle attrezzature in legno del pozzo; il ventilatore di superficie e l’aria compressa fanno il resto. Sfortunatamente, il pozzo di estrazione è anche quello che serve all’immissione dell’aria, per cui fumo ed ossido di carbonio si propagano in tutte le gallerie seguendo il circuito di aerazione. A meno di un’ora dall’incidente, ogni contatto tra il fondo e la superficie diventa impossibile.

Le autorità belghe temono la folla e chiamano il II Battaglione dei Cacciatori a piedi di Charleroi. È una precauzione che si rivela inutile: la gente non vuole assalire il pozzo, non ci pensa affatto. Vuole soltanto notizie dei propri familiari.
Per tre giorni la Società non é in grado di fornirne. Non esiste neppure un elenco completo dei lavoratori in servizio quella mattina.
Le operazioni di soccorso durano fino all’alba del 22 agosto. Ci vorranno due settimane intere per scendere nelle viscere della terra, dopo che un cartello trovato sul fondo aveva riacceso una flebile speranza: “Siamo una cinquantina, fuggiamo per il fumo verso Ca’ Pom”.
Non ci arriveranno mai.

Scendevamo, ma non sapevamo se saremmo tornati su – racconta Silvio Di Luzio, uno dei soccorritori:

‘Ci calavamo cinque alla volta, dentro un secchio, con le cinture attaccate al cavo. Se il secchio si fosse rovesciato, almeno saremmo rimasti appesi. Per raggiungere i compagni intrappolati tra i 975 e i 1035 metri, abbiamo scavato un tunnel da un pozzo nuovo, fino alla miniera della morte. Ci sono volute ore per arrivare, per coprire i chilometri di galleria, per aprirci un varco nel fumo, per stare attenti al gas. Facevamo una fatica incredibile a procedere. Avanzavamo sempre a gruppi di tre e lavoravamo per tre ore di fila. Poi tre ore di riposo e di nuovo giù. Dovevamo restare sempre vicini, per evitare di cadere in fondo al pozzo. Dopo un po’ di tempo, i corpi dei nostri compagni morti hanno cominciato a gonfiarsi. Una volta, mentre giravo un cadavere per infilarlo nel sacco, mi è schizzata in faccia l’acqua che aveva dentro. È stato orribile, avevo il cuore che voleva scoppiare, prima per la paura, poi per il dolore. Non potrò mai dimenticare questi giorni. Non potrò mai dimenticare quel ragazzo di quindici anni che abbiamo trovato dietro una porta, morto. Era abbracciato ad un altro minatore. Se arrivavamo prima, forse potevamo salvarlo. La rabbia è questa, di essere arrivati tardi, troppo tardi. C’erano i corpi di altri quattro ragazzini là sotto. Per fortuna non è stata la mia squadra trovarli’.

Le autorità continuano ad arrivare alla spicciolata: ministri, delegati della C.E.C.A., sindacalisti, funzionari dell’emigrazione, tecnici, rappresentanti consolari. Arriva anche il re Baldovino. Tutti sono profondamente commossi.
E’ triste ricordare che tutti loro sapevano che, prima o poi una tragedia sarebbe potuta accadere al Bois du Cazier, o meglio, sarebbe potuta ripetersi, dato che due gravi incidenti vi si erano già verificati anni addietro: nel primo (1906) avevano trovato la morte venti minatori; nel secondo (1930), quaranta.

D’altronde, soltanto nel periodo1950 -1953, sono morti nelle miniere belghe oltre 250 minatori italiani. Nel ’53 la misura è sembrata colma ed è disposta la creazione di una commissione di inchiesta in cui per la prima volta sono ammessi rappresentanti italiani a parità di poteri con i belgi.
Ovviamente la parità figura solamente sulla carta. I belgi – che rappresentano la maggioranza – fanno prevalere le proprie opinioni. Non si ritiene, ad esempio, di procedere ad una verifica sistematica sull’osservanza del regolamenti nei vari charbonnages. Ne sono visitati alcuni (Bois de Cazier non è tra questi) e si giunge alla conclusione che ‘le catastrofi discreditano la gestione delle miniere ed esercitano un’influenza nefasta sulle domande di impiego.

Altri anni passano ed il numero delle vittime sale vertiginosamente, ma il sottosegretario italiano agli Affari Esteri Francesco Maria Dominedò non se ne preoccupa.
Nel febbraio 1956 uno scoppio di grisou in una miniera di Quaregnon fa a pezzi 7 italiani e ne ferisce gravemente 9.
L’onorevole Rinaldo Del Bo, succeduto a Dominedò, sospende l’emigrazione e dichiara alle autorità belghe che lo sollecitano a revocare la disposizione, di ‘voler esportare lavoratori e non schiavi’.
La C.E.C.A., in vigore dal 18 aprile 1951 ed ampiamente informata dell’accaduto, non interviene mai nella situazione belga, salvo raccomandare ai dirigenti delle miniere di intensificare la produzione per proteggere il mercato comune dalle importazioni americane.
Il governo italiano pone tre condizioni per la revoca del provvedimento di sospensione: che sia abolita la retribuzione a cottimo; che sia realizzata una nuova inchiesta con la partecipazione degli italiani; che il periodo di addestramento dei nuovi assunti sia elevato da 15 a 28 giorni.

Le autorità belghe accettano le due ultime richieste ma non la prima. Interrottesi le trattative, minacciano di arruolare lavoratori di altri paesi che, avrebbero avuto- almeno si supponeva- minori pretese.
Il governo belga sa che le proprie miniere sono in gran parte semi-esaurite e non ha alcuna intenzione né convenienza, ad apportare alle stesse modifiche dispendiose.
La miniera di Marcinelle è conosciuta come vetusta e pericolosa- scrive all’epoca il periodico De Nieuwe Gids.
Dopo la sciagura si è appreso che i suoi pozzi non sono stati concepiti per il passaggio simultaneo di condotte idrauliche, elettriche e dell’olio sotto pressione, come invece avviene.
Le modalità di estrazione non sono adeguate al diametro dei pozzi, tanto che hanno già provocato incidenti mai segnalati al ‘Corps des Mines’, come riporta il giornale ‘Le peuple’ del 25 maggio 1959.
Le attrezzature non sono mai state rinnovate né modernizzate.
Nessuna protezione anti-incendio è disposta al fondo.
Anche il segnale col quale si chiama dal fondo l’ascensore, si presta ad equivoci e confusione.
Il bilancio è raccapricciante: 262 morti, tra cui 136 italiani, 95 belgi, 8 polacchi, 6 greci, 5 tedeschi, 5 francesi, 3 ungheresi, 1 russo, 1 ucraino, 1 inglese e 1 olandese.

Come si evince dalla tabella seguente, la ripartizione regionale delle vittime italiane attribuisce all’Abruzzo il primo posto con 60 morti, la maggioranza dei quali provenienti dai comuni di Manoppello e Lettomanoppello (Pe), spesso appartenenti alla stessa famiglia:

Abruzzo 60
Puglia 22
Marche 12
Friuli V.G. 7
Molise 7
Emilia R. 5
Sicilia 5
Veneto 5
Calabria 4
Lombardia 3
Toscana 3
Campania 2
Trentino A.A. 1

Nonostante l’accertamento delle negligenze, l’autorità giudiziaria non ritiene di attribuire alcuna sostanziale responsabilità della catastrofe alla società titolare della miniera.
Le famiglie delle vittime sono rappresentate gratuitamente da un collettivo di avvocati, tra i quali Jacques Moins, membro del Partito Comunista belga.
‘Avrebbe dovuto essere un processo alle condizioni di lavoro, imposte dalla logica del profitto ed alle responsabilità padronali’ ma l’unico colpevole sembra essere, invece, l’imprudenza dei lavoratori.
L’unica nota positiva dell’intera vicenda è la visibilità conquistata dagli italiani.
La loro vita piena di sacrifici balza alla luce degli organi di informazione belgi e per i Macaroni si aprono da quel momento le porte dell’integrazione alla vita sociale del Paese.

Redazione RADICI

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