Vivere per lavorare o lavorare per vivere

Vivere per lavorare o lavorare per vivere

di Vittorio Bilardi

Il mondo del lavoro sta cambiando. E il ritmo di questo cambiamento è molto più rapido di qualsiasi altro mutamento avvenuto nella storia recente. Tra i molti sconvolgimenti che ha innescato la pandemia, ha certamente contribuito in modo sostanziale ad esporre i punti deboli di un ecosistema lavorativo complesso e in costante trasformazione: tra questi vi è la crescente difficoltà – sofferta soprattutto in alcuni settori occupazionali – di bilanciare il tempo dedicato al lavoro con altri aspetti della vita, un tema verso il quale sta maturando una crescente sensibilità. Chi siamo quando non lavoriamo? Chi saremmo se non lavorassimo? E chi saremo quando non lavoreremo più? Sarà l’Intelligenza Artificiale che si impossesserà delle nostre vite e si sostituirà ai lavori dei nostri figli? O siamo già noi gli automi? Qual è lo scopo della vita? Il lavoro?

Vivere per lavorare non è sano, eppure è questa la risposta datami da un giovane studente frequentante il secondo anno di scuola superiore, dopo aver osservato suo padre per ore dinanzi ad un pc: “Oltre il lavoro, mio padre non ha nient’altro, è la sua identità. Sgobbare per il lavoro non gli pesa, anzi lo rende felice. Ha trovato in esso l’unica forma di gratificazione che conosce, che gli riempie la vita di senso”. Nulla come il lavoro ci dice del presente, ma anche di come sarà il futuro. Negli ultimi anni il dibattito sul futuro del lavoro è dominato da esperti di Intelligenza Artificiale e automazione. Se davvero l’impatto massivo delle nuove tecnologie con Intelligenza Artificiale ci privasse del lavoro, come riempiremmo noi stessi e il nostro tempo? Viviamo in una società dominata da un’etica del lavoro di stampo calvinista, in cui la certezza della salvezza passa per la necessità di lavorare come un dannato.

E’ possibile immaginare un mondo affrancato dalla convinzione che il lavoro debba essere il centro della nostra esistenza? Stiamo assistendo a un aumento della consapevolezza della relazione che intercorre tra lavoro e salute. Non siamo vita da una parte e lavoro dall’altra, siamo persone. Il lavoro fa parte della vita, ma non è la vita dell’uomo. Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e per lo sviluppo della società e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell’umana dignità e al servizio del Bene Comune. Così dicendo, si dà al lavoro, all’attività produttiva, all’economia un’impostazione antropologica; se così non fosse, si finirebbe per trattare il lavoro quale semplice “forza lavoro”, alla stregua di qualsiasi altro fattore produttivo, di qualsiasi altra fonte di energia. Le cose che davvero valgono nella vita sono il tempo, gli affetti e la salute, e il lavoro spesso riduce o ti porta via tutte queste cose; quindi non vedo ragione logica perché uno dovrebbe scambiarle con denaro oltre lo stretto necessario per coprire i bisogni di base.

La domanda in ultima analisi è “Lavoro per vivere o vivo per lavorare?”

Redazione

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