Piazza Duomo di Ortigia nel romanzo di Melinda Miceli

Piazza Duomo di Ortigia nel romanzo di Melinda Miceli
Rievocazione storica e semiotica della piazza di Ortigia tratta dal Romanzo Primadonna in Sicilia

È usanza di turisti e cittadini a Siracusa uscire a passeggio in Ortigia per il dedalo di viuzze strette che ospitano chiese, conventi, localini, negozi di souvenir e abbigliamento, botteghe di artigianato, ristoranti, hotel, palazzi antichi dai balconi colorati, inferriate ricurve sorrette da mensole, mercati, viste mozzafiato sul mare ad ogni angolo: una città araba nella città barocca dove tutti i quartieri anche i più oscuri sboccavano in piazza Duomo nella luce spagnolesca degli edifici più magniloquenti del settecento siciliano. Ogni volta che Ursula osservava la cattedrale le sembrava sempre più di vedersi materializzare la ricostruzione dell’antico tempio di Minerva, il grande periptero dorico con 6 colonne.

Nell’attuale facciata le due grandi colonne si contorcevano facendole vedere le trasformazioni epocali del tempio su quella piazza da sempre destinata ad essere l’area sacra più grande dell’Occidente greco. Quelle colonne poste all’ ingresso simboleggiavano la dualità del femminile, dell’aria, soffio che alimenta la vita e quella del maschile fuoco, ardore vitale divorante, attività, Zolfo degli Alchimisti. Nella duplicazione del simbolo-colonna si esaltava la dicotomia tra verticale e orizzontale, tra valori terreni-ctonii e aerei-uranii, il principio della rettitudine, ispirato all’antico culto solare dei Cananei, che vede il Dio- Luce sorvegliare il mondo dall’alto. Questa “riedificazione visionaria e colta” era fondata sul tempio greco di cui rievocava la sua visibilità dal mare, lo scudo dorato della dea Atena che poteva fungere da faro per i naviganti, oggi fronteggiato da palazzi nobiliari che serrano la piazza semiellittica. Uno scenario che a volte le risultava accecante, a volte romantico ma austero e imponente; la roccia bianca di colonnati, nobili palazzi signorili, raccontava ancora di popoli, culture e tempi diversi e trasportava lo stupore e la meraviglia di ogni istante in un’atmosfera d’altri tempi.

Piazza Duomo di Siracusa era una volta l’acropoli della città, luogo sacro del culto greco; all’angolo della stessa ogni volta che Ursula passava vedeva ergersi fiero della sua architettura sicula-barocca e della bianca pietra siracusana Palazzo Beneventano Del Bosco con il suo prospetto a timpano che fronteggiava il Vermexio con quella lucertola appesa a firma dell’architetto mentre le colonne d’Ercole della decorazione simboleggianti il superamento di ogni limite umano a fianco dell’aquila borbonica erano schernite dalle nicchie deserte e concave che incompiute si beffeggiavano di loro mentre il loro architetto attendeva ancora che ospitassero i 7 re di Spagna per i quali le aveva destinate. Visualizzava giacere nei sotterranei del Palazzo del Senato, anche se non era visibile, il Tempio Ionico o Artemision, del VI sec. a. C, quasi come il fantasma delle glorie della capitale ellenistica. La sua mente immaginifica lo rivedeva allineato al tempio di Apollo, il più antico periptero dorico della Sicilia dedicato al Dio della musica e della divinazione, protettore della medicina a Siracusa. Il quattrocentesco Palazzo Beneventano Del Bosco in origine degli Arezzo aveva ospitato il Senato della città prima della costruzione del palazzo Vermexio. Distrutto dal violento terremoto del 1693, venne nel 1778 acquistato e ricostruito dal Barone Guglielmo Beneventano, membro di un’antica casata nobiliare di Modica e Lentini, noto cavaliere di Malta.

Osservava ora il suo prospetto attuale dell’architetto Alì che accoglieva lo stemma della famiglia nobiliare: un leone ed un orso che combattono. Questo palazzo forse come nessun’altro le indicava chiaramente la predilezione atavica dei nobili di costruire accanto all’area sacra, lungo la hiera hodos greca nel secolo barocco quando la piazza divenne l’espressione architettonica dell’alleanza dei due poteri. Il cortile interno formato da due ampi portici delimitanti il perimetro inferiore del chiostro, la cui pavimentazione in ciottoli bianchi e neri ricordava un tappeto disegnato. Ad ogni angolo di Ortigia, mensole, stemmi, simboli del barocco quello stile colto e scenografico tanto sottovalutato che racchiude in se miti, paure, superstizioni, credenze, magie, in una parola la cultura di un’intera società.

La luce di Ortigia dalla piazza ai quartieri si rifletteva scivolando dalle parti curve a quelle lineari, esaltando la natura dinamica della sua urbanistica concedendo ad essa la forma evocatrice di una tradizione che odora ancora di quella bellezza storica che corre lungo i vicoli e nei signorili lineamenti dell’isoletta sacra ad Artemide. Infine la punta estrema di castel Maniace con la sua mole quadra, portale del tempo per il suo salone ipostilo nel quale s’incontrano dal medioevo la cultura araba, normanna e bizantina con le rispettive credenze e religioni. Rivolto verso l’infinito azzurro di un mare di luce e d’arte, di antiche battaglie e riserve naturali di Siracusa che come un mosaico cristallizzano la sua bellezza senza tempo.

La piazza barocca di Siracusa a forma ogivale è stata set cinematografico di sfilate come Dolce e Gabbana, Fendi e film come Malena e il Gattopardo la celebre opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che ne fa un ritratto letterario perfetto di sicilianità e del passaggio dell’Aristocrazia alla moderna Borghesia.

Melinda Miceli, critica d’arte

Redazione

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