Un mar di gente e noi senza salvagente

Un mar di gente e noi senza salvagente

Giordano Buresta. Da Fano a Merlo (Marchigiani in Argentina)

 

La nostalgia? Una malattia che non si cura.  Ha molto da dire sull’argomento Giordano Buresta, nato a Fano e residente da tempo a Merlo dove ha fondato “Fanum argentum”, l’associazione che riunisce i fanesi d’Argentina.
L’intervista che segue mi è stata rilasciata a Fano il 26 luglio 2003.

D.Come inizia l’emigrazione nella sua famiglia?
R. Con mio padre, Isidoro Buresta. Partì nel 1950.

D.Partì solo?
R. No, con due amici: Enzo Filippetti e Irverio Di Fino. Mia madre e noi figli restammo a Fano.

D.Dove abitavate?
R. Nel quartiere Colonna, tra il campo sportivo e quello d’aviazione.

D.Che lavoro faceva suo padre a Fano?
R. Era falegname.

D.C’era qualcuno ad attenderlo a Buenos Aires?
R.Sì, un personaggio molto conosciuto in città, il dr Corsaletti. Era un artista, faceva i carri di Carnevale.

D.Che raccontava suo padre dei primi tempi in Argentina?
R.Che furono duri. Visse in pensioni provvisorie e si mantenne facendo lavori saltuari, come la perforazione manuale di acqua. Poi lavorò con un’impresa locale che costruiva i capannoni dell’Aeronautica: lavorò a Tartagal, al nord (avevo delle sue foto con gli indios), poi a sud, nella zona del Río Negro (Villa Regina, Cipolletti), oggi famosa per la frutta.

D. Quando l’avete raggiunto?
R. Nel 1954 siamo partiti tutti: mia madre, io che avevo circa nove anni, mia sorella, già maestra, e mio fratello.

D. Come le è sembrato il nuovo paese?
R. Erano tempi difficili per noi italiani. Essere italiano era una cosa da nascondere, perché Italiano morto di fame, vieni qui a sfamarti era un ritornello molto in voga. Ma anche volendo, era difficile nasconderlo, perché eravamo in difficoltà con la lingua ed il vestiario.

D.Il vestiario?
R. Sì. Noi bambini a Fano indossavamo i pantaloncini corti, ma là no, i ragazzi come me li portavano al ginocchio e così apparivamo ai loro occhi molto ridicoli. Guardandoci, ridevano, ridevano…
Io dopo due settimane iniziai a frequentare la scuola. Dopo un po’ ci trasferimmo a Merlo, a trentadue chilometri dalla capitale.

D. Com’era Merlo a quel tempo?
R. C’erano mucche che camminavano tranquillamente per strada, c’erano gauchos a cavallo…Le strade non erano asfaltate, tranne la principale dove passava l’omnibus.
Ricordo che la terra era nera, scura, grassa, densa; se cadevi per terra dopo una pioggia, affondavi dentro, sembrava che ti catturasse. Calzavamo sempre gli stivali.

D. Il paesaggio, com’era?
R. Non c’erano montagne, tutto era piatto. Gli spazi erano enormi, non c’erano stradine…

D. Completamente diversa da Fano, mi pare…
R. Sì, tutto era aperto, come un parco. Non ti sentivi protetto da nulla, ti sentivi solo.

D. La sua famiglia, sua sorella in particolare, come ha vissuto l’arrivo in Argentina?
R. Non è uscita dalla stanza per un mese, è rimasta dentro a piangere. Sa, per lei era più difficile ambientarsi…

D.Come ricorda la partenza da Genova?
R.Nel porto la nave che partiva faceva un grande effetto. Ho visto gente svenire al momento della partenza quando realizzava che non avrebbe più rivisto i familiari o che non sarebbe più tornata. Si saliva in coperta mentre la gente dalla banchina tirava stelle filanti e coriandoli. Non si dimentica il sibilo della nave, quel silenzio glaciale. La nave si allontanava piano piano Non si dimenticano quelle cose.

D. Queste emozioni erano condiviso anche dai suoi familiari?
R. Altroché! Pensi che mia madre tornò in Italia nel 1968, dopo quattordici anni. Al momento del rientro a Buenos Aires, io e mio padre andammo a prenderla.
Non torno più in Italia – ci disse – Un’altra partenza sarebbe troppo per me, non la reggerei.
Dopo tredici giorni di navigazione in cui aveva potuto elaborare la partenza ed il distacco, era provata e stressata come se fossero passati cinque minuti soltanto. In effetti non tornò più in Italia.

D. Cosa ricorda dell’arrivo al porto di Buenos Aires?
R. Il Río della Plata innanzitutto, un fiume scuro, largo quanto l’Adriatico.
La nave, la Giulio Cesare, arrivò verso le quattro del mattino. Ovviamente nessuno di noi aveva dormito quella notte, non era proprio possibile.
Eravamo tutti in coperta quando ci apparvero le luci di una città enorme.
Nel silenzio totale si sentivano alcune voci:
Che succederà ora? – bisbigliavano alcuni.
Ciascuno immaginava la città che non conosceva e soprattutto, vi immaginava il proprio futuro. Un mare di gente e noi senza salvagente: così potrei sintetizzare lo stato d’animo che provai, anche se all’arrivo trovammo tanti fanesi che ci aspettavano, felici di vederci. Oltre a mio padre, naturalmente.

D. Le sembrava diversa la vita in Argentina?
R. Diversa per tante cose, in primo luogo per il cibo: quelle bistecche enormi, che riempivano tutto il piatto, quella carne cotta al dente, quasi sanguinante, mi faceva impressione, non mi piaceva per niente. Poi c’erano tante mosche, tanto fango per strada e le mucche transitavano incustodite (o così sembrava a me). Non mi sentivo protetto per niente.

D. E la vita sociale? C’erano tanti immigrati?
R. Sì, e ogni sera ci si ritrovava a casa di uno o dell’altro: si mangiava insieme, si raccontava la guerra che era stata vicina, si cantava.

D. Cosa cantavate?
R. Mio padre cantava brani d’opera, noi le canzoni del periodo.

D. Quali, ad esempio?
R. Quel mazzolin di fiori, Mamma, Fiorin Fiorello, Vola colomba, Non sai che i papaveri… Poi si cucinava ed ogni comunità regionale, diciamo così, offriva le proprie specialità agli altri. Tutti gli ingredienti si trovavano facilmente. Facevamo tutto questo per sentire meno la nostalgia dell’Italia.

D. Dove lavorava suo padre a Merlo?
R. Lavorava in proprio; installò una falegnameria e continuò stabilmente questa attività.

D. E lei?
R. Sono diventato ingegnere aeronautico.

D.Quando tornò in Italia per la prima volta?
R.Dopo ventun anni; avevo trent’anni. Sono tornato con mia moglie Cristina.

D.Italiana?
R.No, è nata in Inghilterra da famiglia polacca. E’ arrivata in Argentina a quattro anni e ci siamo conosciuti a quindici; io allora cantavo nel coro della chiesa.

D.Torniamo al viaggio…
R. Abbiamo viaggiato attraverso l’Europa; ho guidato per oltre undicimila chilometri. Quando siamo arrivati nei pressi della mia città, mi sono emozionato molto e appena ho visto il cartello stradale di Fano ho cominciato a tremare: non riuscivo più a guidare, tanta era l’emozione. Poi con calma, da solo, ho rintracciato la casa degli zii.

D. E’ tornato un sacco di volte da allora. Il ritorno le fa sempre lo stesso effetto? Credo di no. E’ più distaccato, ora?
R. No, perché con il tempo e l’età che avanza, la sensibilità aumenta ed ogni volta il distacco è più doloroso. Per Fano preferisco andare da solo, senza moglie e figlia. Voglio assaporare tutto: odori, sapori, sensazioni, non voglio essere distratto. E nello stesso tempo cerco di non darmi totalmente, sono come un amante che sa che dovrà lasciare la propria donna.

D.Quindi lei mette delle distanze tra sè e Fano per non soffrire troppo al ritorno?
R. Sì, perché so che dopo la pagherei cara e sarebbe troppo doloroso.

D. L’essere tornato tante volte non ha mitigato la sua nostalgia?
R. La nostalgia è una malattia che non si cura, si aggrava col tempo ed è pure contagiosa.

D.Cos’è per lei Fano?
R.Non è una città, è un sentimento e come tale difficile da decifrare razionalmente.

D. Anche i suoi amici vivono Fano come lei?
R. Guardi, a Merlo c’è un amico nato a Cucurrano.

D. Una frazione di Fano…
R. Sì. Si chiama Silvio. Da ragazzo faceva il contadino ma a Merlo è riuscito ad istallare una falegnameria industriale con un gran successo finanziario.
Per hobby ha comprato quindici ettari di terra, con cinque mucche, cinquanta maiali, pecore, oche, tacchini, tutto quello che qua non era riuscito ad avere.
Avresti mai pensato di poter avere per hobby una terra così? – gli ho chiesto?
Ma an è a Cucuran! (non è a Cucurrano) – mi ha risposto!

D.Ha mai pensato di trasferirsi a Fano?
R. Non sarebbe la soluzione, perché mi mancherebbe l’Argentina.

D.Lei ha dato vita ad un’associazione di fanesi dal nome “Fanum argentum”. Ne fanno parte anche i giovani nati là?
R. Sì, ce ne sono tanti. I giovani amano molto ascoltare le mie storie, le storie di Fano di cinquant’anni fa. Sono storie curiosissime per loro, perché l’Argentina non ha mai vissuto, nemmeno nei momenti peggiori, le privazioni del dopoguerra in Italia.

D.Che cucinate durante le feste?
R.Tante cose: la polenta alla panàra, la porchetta…Loro godono di questo.
Là la famiglia è ancora come quella di una volta; i valori italiani sono molto sentiti ed apprezzati: il senso della famiglia, le responsabilità, il rito del pranzo con vino e caffè, tutti insieme riuniti a mangiare.
Gli italiani sono arrivati in Argentina ed in tutto il mondo senza una lira ma i loro valori semplici sono stati apprezzati dovunque. Hanno sempre voluto migliorare ed ora tutti i loro figli sono laureati. Per loro questo è molto importante.

Paola Cecchini

Paola Cecchini

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