La nuova Gladio e la Strage di Capaci 

La nuova Gladio e la Strage di Capaci 

Maria Angioni

I giornalisti della testata indipendente The Post Internazionale hanno letto con attenzione decine di migliaia di documenti facenti parte degli archivi ufficiali della struttura “Gladio”

La nuova Gladio e la Strage di Capaci 

Mai come in questi anni si è potuto e si deve dire che i giornalisti spesso ci “arrivano” prima, a seguire le tracce dei tradimenti istituzionali (o coperti dal lenzuolo istituzionale), che si sono nascosti a lungo dietro le esplosioni delle stragi della Repubblica, dietro eccidi e omicidi, tentati omicidi, rapine, e fondi neri.

E’ vero che il lavoro del giornalista è più “semplice”, sotto diversi profili, di quello ad esempio del magistrato, che deve seguire le regole procedurali e deve fermarsi ogni qual volta una ipotesi di reato non risulti assistita da elementi idonei a condurre a una sentenza di condanna, ovvero deve assolvere quando non si raggiunga al di là di ogni ragionevole dubbio la prova della commissione di un reato, e della responsabilità dell’imputato.

Il giornalista deve infatti scrivere di fatti che abbiano una base di fondatezza, perché riferiti da una fonte affidabile, perché riscontrati da un documento, o perché direttamente percepiti dal redattore: senza che sia necessario che il livello di oggettività e verità di tali circostanze sia pari a quello della prova nel procedimento o processo penale.

Però, in questi anni, soprattutto i giornalisti – con importanti eccezioni, fra cui spiccano la Procura Generale e la Corte d’appello di Bologna – sono apparsi animati dal legittimo furore della curiosità, della ricerca, del ragionamento logico, dello scetticismo rispetto alle vulgate semplificatrici, con riguardo ai fenomeni, alle manovre, alle organizzazioni infiltrate nelle istituzioni, che sempre maggiori voci hanno indicato come responsabili occulte di diversi ed eclatanti episodi di stragismo o di criminalità.

Molti magistrati, invece, hanno preferito continuare ad osservare solo ciò che era evidente al primo sguardo, accontentandosi di perseguire e condannare la manovalanza esecutiva; e alcuni addirittura hanno voluto sottolineare l’inesistenza di un livello occulto di responsabilità.

Male hanno fatto, perché ciò che gli Dei non guardano, cresce sempre più forte, perché quando chi sta in alto non ha il coraggio, chi sta più in basso comprende benissimo che è meglio tacere e non esporsi.

Hanno però voluto guardare in quella direzione, e guardare bene, i giornalisti della testata indipendente The Post Internazionale (TPI), e in particolare Andrea Palladino, che ha letto approfonditamente circa 190.000 pagine facenti parte degli archivi ufficiali della struttura militare coperta denominata “Gladio”, istituita dallo Stato italiano nell’immediato secondo dopoguerra col fine dichiarato di organizzare una resistenza in caso di invasione palese o sotterranea della penisola da parte dell’Unione Sovietica o di altri stati comunisti.

Si tratta di documenti che sono rimasti secretati per decenni, fino a quando non sono stati declassificati con una direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi il 2 agosto 2021, data del quarantunesimo anniversario della Strage di Bologna in cui perirono, sotto due esplosioni ravvicinate, ben 85 persone.

Già il fatto di avere spulciato tutto quel corposo materiale di archivio denota una enorme curiosità e una notevole spinta verso la ricerca della verità; ma vi è di più, perché i giornalisti di TPI hanno rinvenuto, in particolare, un documento dal tenore sconvolgente, ma non inaspettato, un documento che dimostra ciò che in tanti avevamo sospettato, cioè che anche dopo il 1990 la struttura militare “Gladio” (collegata all’operazione della N.A.T.O.  “Stay Behind”) rimase ed è rimasta operativa e attiva.

Nel 1990 avvenne che Giulio Andreotti, all’epoca Presidente del Consiglio, il 24 ottobre rivelò alla Camera dei Deputati l’esistenza di Gladio, e fece rendere pubblico un elenco di 622 “gladiatori” (tra cui Francesco Cossiga).

Il magistrato veneziano Felice Casson, che aveva svolto le indagini sulla Strage di Peteano – atto terroristico commesso il 31 maggio 1972 ai danni di una pattuglia di Carabinieri utilizzando le armi che erano state sepolte in uno dei “Nasco”, ossia  nascondigli, della Gladio – trasmise il fascicolo sull’organizzazione, per ragioni di competenza territoriale, alla Procura della Repubblica di Roma, che però ritenne che la struttura militare non avesse niente di penalmente rilevante.

Ebbene, anche sorvolando sul fatto che Andreotti nel suo discorso alla Camera ammise che la Gladio era stata ed era tuttora una struttura attiva, mentre pochi mesi prima, il 3 agosto 1990, davanti alla Commissione Parlamentare Stragi aveva sostenuto che essa sarebbe stata sciolta fin dal 1972, resta il fatto che Andreotti già il 24 ottobre 1990, nel rivelare l’esistenza della struttura militare che aveva il compito di svolgere operazioni “dietro le quinte”, ossia ignote ai più, ne anticipò lo scioglimento; o meglio, anticipò lo scioglimento della struttura che, in quanto rimasta coinvolta nella Strage di Peteano, non poteva più essere tenuta nascosta.

Però dai documenti declassificati, visionati da TPI, e in particolare da un appunto interno al Sismi (la vecchia sigla del Servizio segreto militare) è emerso che proprio nell’anno in cui la parte “compromessa” e non più difendibile di Gladio era stata abbandonata e chiusa dallo Stato italiano, il Sismi aveva già il 13.7.1990 dato indicazioni per la creazione di “una nuova struttura” alle dipendenze della propria settima divisione, con il compito di porre in essere operazioni con “agenti a perdere”, ossia in qualche modo appaltate o commissionate a pagamento a soggetti non inseriti organicamente nel Servizio segreto, in modo tale che ove venissero scoperti non potessero nuocere alla struttura che aveva diretto le loro azioni più rischiose, azioni, cioè, che verosimilmente potessero integrare violazione dei codici penali, o che perlomeno si potessero tradurre in violazioni dei diritti altrui.

Ho scritto “codici penali”, e non “codice penale” perchè in alcuni casi si sarebbe dovuto, o si dovrebbe applicare alle azioni della nuova struttura super segreta non il codice penale ordinario bensì il codice penale militare.

Struttura super segreta giacchè, innovando rispetto al passato, i vertici a conoscenza  di essa sarebbero stati soltanto due, entrambi interni al Sismi, con esclusione dunque del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ebbene, l’ipotesi che tale struttura, una sorta di Nuova Gladio più resistente della prima, fosse stata effettivamente istituita e organizzata, e fosse divenuta operativa negli anni fino ai più recenti, è verosimile e trova riscontro nelle dichiarazioni di diversi propalanti, oltreché in alcuni accertamenti dell’autorità giudiziaria, ma soprattutto trova sostegno in una valutazione secondo il senso logico della dinamica di diversi episodi stragistici, primo fra tutti il terribile attentato nel quale persero la vita a Capaci, il 23 maggio 1992, il magistrato Giovanni Falcone assieme alla moglie, ed a diversi componenti della scorta.

Già dalla lettura infatti delle dichiarazioni rese nel primo processo celebrato a Caltanissetta per la Strage di Capaci, cristallizzate nella sentenza di primo grado, erano emersi indizi importanti che dovevano sin da subito fare sospettare la presenza fra i responsabili, o più probabilmente fra i registi, di persone appartenenti alla Gladio o ad altre strutture segrete.

Il racconto degli uomini della scorta sopravvissuti alla strage, e in particolare quello di Angelo Corbo che parlò di “un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione”, come se si fosse trattato non di una sola ma di due esplosioni ravvicinate, e quello di Giuseppe Costanza, che ricordò come a un certo punto Falcone, che era alla guida della seconda auto del “corteo” della scorta, avesse sfilato le chiavi dal quadro poco prima che una violentissima esplosione annullasse tutto: “perché poi non c’è più nulla”, devono far pensare che sull’autostrada che dall’aeroporto portava a Palermo, quel 23 maggio, siano scoppiate due cariche di esplosivo a distanza di tempo molto ravvicinata, e non una sola.

La prima, sempre mortale ma di minore potenza, sarebbe stata allora quella sprigionata dalla carica di tritolo di cui hanno parlato quasi tutti i pentiti di mafia, mentre la seconda, così forte da aprire addirittura una voragine nell’autostrada, venne verosimilmente azionata da altre persone, rimaste per anni nell’ombra, mediante l’impiego non soltanto di tritolo, ma anche di cariche di pentrite, un esplosivo micidiale che viene di solito utilizzato in ambito militare.

Questo perché l’azione repentina e imprevista di Falcone, che tolse le chiavi dal quadro, non si può interpretare, usando la logica e il buon senso, se non come la pronta reazione di una persona intelligente e coraggiosa, come era il magistrato, di fronte a un pericolo che forse solo lui era riuscito a vedere, poco prima che subentrasse il “nulla”: e questo qualcosa, al di là dei ricordi e delle interpretazioni dell’autista Costanza, può essere stata la prima auto del corteo che saltava in aria a causa di una prima esplosione. Infatti nei resti di questa auto venne rinvenuto dai periti soltanto tritolo, mentre nel cratere alcuni periti individuarono anche pentrite e semtex, un esplosivo plastico a base di pentrite.

D’altra parte questa auto, prima di essere squarciata dalle cesoie dei vigili del fuoco, nel disperato tentativo di estrarre i corpi degli agenti di scorta, e prima di essere ricomposta nell’ammasso informe che ancora oggi si può vedere in diverse occasioni, lungi dall’essere completamente distrutta dall’esplosione, come sarebbe dovuto accadere se fosse stata colpita dalla potenza e dall’onda d’urto che creò il cratere, venne catapultata lontano con addirittura le gomme integre, e provocò, purtroppo, la morte dei suoi occupanti nel ricadere a terra capovolta.

E chi poteva avere posizionato e poi fatto saltare la seconda carica? Forse coloro che erano stati visti da alcuni testimoni, il giorno prima, mentre collocavano cavi, dopo essere giunti a bordo di un furgone bianco? Forse la donna il cui dna venne estrapolato da alcuni reperti rinvenuti sulla scena del crimine?

Ormai in molti cominciano a valutare con sempre maggiore attenzione l’ipotesi che a Capaci fossero stati installati due distinti “cantieri” della morte, e i documenti dell’archivio della Gladio, che fino ad oggi sono stati declassificati, offrono una luce importante, che si aggiunge e contribuisce a dare forma a tutte le punte di iceberg precedentemente emerse.

Redazione

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