Matteo Messina Denaro e la Calabria, realtà o suggestione?

Matteo Messina Denaro e la Calabria, realtà o suggestione?

Di Maria Chiara Monaco

Una “carriera criminale” impeccabile quella di Matteo Messina Denaro, cresciuto nella piccola città di Castelvetrano, in provincia di Trapani. Denominato “U siccu” per la sua gracilità fisica, e “Diabolik” per l’astuzia criminale, figlio del patriarca mafioso Francesco Messina Denaro, con il tempo scala le gerarchie familiari, diventando capo della cosca cittadina, e fedelissimo alleato dei Corleonesi, capeggiati da un certo Totò Riina. Inizia così la guerra di mafia, che dai primi anni ’80, ha insanguinato le strade siciliane, colpendo magistrati, uomini delle forze dell’ordine, e numerosi innocenti. Con la spietatezza da vero killer, egli ha compiuto numerose esecuzioni, come quella del piccolo Giuseppe Di Matteo, un ragazzino di soli 15 anni, strangolato e poi sciolto nell’acido, punendo così, il padre Santino, collaboratore di giustizia, che stava aiutando le forze dell’ordine a far luce sulla strage di Capaci.

Ma non solo Sicilia, perché c’è un filo che lega Matteo Messina Denaro alla vicina Calabria. Infatti, il boss arrestato ieri mattina a Palermo, è indagato anche dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio del Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione Antonino Scopelliti, ucciso il 9 agosto del 1991 in località “Piale” di Villa San Giovanni, mentre faceva rientro a Campo Calabro.

Un’inchiesta chiusa nel 2000 in Corte d’appello, e nel 2004 in Cassazione, con l’assoluzione di numerosi boss Siciliani, tra cui Bernardo Provenzano, Giuseppe e Filippo Graviano, e Nitto Santapaola. A distanza di anni, l’inchiesta sull’omicidio del giudice è stata riaperta, grazie al ritrovamento del fucile che lo uccise barbaramente. Un elemento “scomodo” era Scopelliti, poiché avrebbe dovuto rappresentare l’accusa al Maxiprocesso contro Cosa Nostra. L’indagine è ancora in corso e oltre a Matteo Messina Denaro, sono coinvolti altri sei siciliani.

Da Reggio Calabria, Messina Denaro, si è spostato indisturbato, come uno spettro che non lascia alcuna traccia, sulla provincia di Cosenza, ma non solo, visto la gestione dei numerosi “affari” a Vibo Valentia. Il latitante, avrebbe sostato, probabilmente per un breve periodo di tempo, nelle città di San Lucido e Amantea, sul Tirreno cosentino.

Realtà o suggestione? Restano comunque evidenti le battute di caccia dei carabinieri con rastrellamenti casa per casa, che in assenza di smentite ufficiali, i cittadini hanno attribuito proprio alle sue ricerche.

C’è però un’ipotesi molto concreta che lega Messina Denaro al territorio dell’hinterland cosentino, si tratta di una pista suggerita da un collaboratore di giustizia. A sentir lui, il latitante potrebbe aver trascorso del tempo a pochi chilometri dalla città capoluogo, in un paesino chiamato Mendicino. È lì, che Cosa nostra avrebbe investito dei soldi per l’acquisto di un paio di appartamenti. Covi che, fra le altre cose, sarebbero serviti a ospitare il più pericoloso degli inquilini.

Dalla piccola Castelvetrano, a Mendicino, nell’entroterra calabra. Di questo ha parlato il pentito Luigi Paternuosto, membro di un clan cittadino, dal 2011 collaboratore di giustizia. Durante un interrogatorio, questo ha raccontato di quando due emissari di Totò Riina e Messina Denaro arrivarono a Cosenza per concludere l’acquisto delle abitazioni :«So che l’affare andò in porto, ma non so indicare dove siano questi appartamenti. Si trovano comunque sulle quattro strade di Mendicino, prima di arrivare al paese».

La Calabria non solo come nascondiglio, ma anche come gestione di un folto patrimonio, accumulato grazie alla spietatezza di Cosa Nostra, che ha trivellato numerosi innocenti.

C’è una parentesi aperta recentemente dal boss, che riguarda più da vicino il territorio di Vibo Valentia, egli era infatti pronto ad investire in un villaggio turistico a Capo Vaticano, con una partecipazione del 33 per cento.

Marcello Filoreto, in passato vicino al Clan Piromalli di Gioia Tauro, ha svelato il progetto del Diabolik siciliano. Egli ha parlato di un importante imprenditore del settore alberghiero, che aspirava probabilmente a diventare il prestanome del potente boss, si tratta dell’ex patron di Valtur, Carmelo Patti, poi deceduto. La vicenda è raccontata in un provvedimento emesso dal Tribunale di Trapani, che ha sequestrato un impero da 60 milioni a Giovanni Savalle, secondo le indagini, altro prestanome di Messina Denaro, divenuto proprietario di uno dei resort più lussuosi della Sicilia, l’ex hotel Kempinsky.

Insomma una montagna di soldi, che il boss voleva investire nel settore alberghiero, acquisendo anche l’appellativo di imprenditore, visto il patrimonio da circa 4 miliardi di euro, accumulato in tutti questi anni attraverso estorsioni, traffico di droga, riciclaggio.

Soldi sporchi, che Matteo Messina Denaro avrebbe investito insieme ai suoi picciotti.

Redazione

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