Dittatori necessari e pedine di scambio

Alla fine il “dittatore necessario” – cioè come Draghi appellò Erdogan durante una conferenza stampa lo scorso anno – ha colpito ancora.
La Turchia rimuove il suo veto all’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica. Durante la conferenza di Madrid, i due Paesi sono stati formalmente invitati – come prescrive l’art. 10 del Trattato – e adesso avrà avvio l’iter che, nel caso specifico, sarà il più contenuto possibile.
Dal suo punto di vista, la Nato guadagna enormi vantaggi strategici, dato che andrà a rinforzare il proprio assetto difensivo nel suo quadrante settentrionale, bloccando indirettamente il Mar Baltico e cingendo la Russia e in particolare il suo exclave di Kaliningrad.
Inoltre, la penisola di Kola, avamposto militare russo della Zona Artica diventerebbe vulnerabile ad un attacco militare di terra, il quale potrebbe partire proprio dalla Finlandia.
La “notizia del giorno”, però, è un’altra, cioè la rimozione del veto da parte della Turchia. All’inizio, quando l’ingresso dei due Paesi baltici era soltanto una voce di corridoio, Erdogan annunciò platealmente la sua contrarietà a questo allargamento, dichiarandosi inamovibile.
Cosa è cambiato nel frattempo?
Abbiamo già parlato della posizione turca sulla guerra e delle eventuali contropartite ed era ampiamente prevedibile che alla giusta offerta, la posizione di Erdogan sarebbe cambiata.
Manifestando il suo dissenso, il Presidente turco ha innanzitutto fatto sentire il suo peso nell’Alleanza. In un periodo di rinata sintonia tra Bruxelles e Washington, Ankara vuole affermarsi come terzo asse dell’Alleanza. Un riconoscimento che si ufficializza attraverso il suo riconoscimento come soggetto a sé stante: la Turchia è autonoma e merita di essere “convinta” dagli altri 29 Paesi.
Inoltre, tra conti in sospeso con gli alleati e richieste specifiche, l’occasione era ghiotta.
La seconda contropartita è una questione di politica interna e riguarda la minoranza dei curdi. La Svezia garantiva protezione ai Curdi del YPG – che Ankara considera terroristi ma che comunque hanno assolto un ruolo importante nel contenimento dell’ISIS, tornando utili anche agli occidentali che da anni li riempie di elogi e vuota retorica.
Il messaggio lanciato è chiaro: “gli occidentali hanno più bisogno di me che dei curdi. Nessuna vuota retorica tiene di fronte alla realpolitk”.
Come terza contropartita si vocifera che Erdogan auspichi la soluzione dell’acquisizione degli F-35 e l’upgrade degli F-16, a cui si aggiungeranno fondi USA-NATO per far fronte all’incremento del potenziale militare turco in funzione del contenimento dell’espansionismo russo-iraniano in Medio Oriente.
Altre concessioni non appaiono sui documenti ufficiali ma sono altrettanto preoccupanti, perché sono innanzitutto contropartite geopolitiche.
Ankara, seppur volubile, è un Paese molto attivo in politica estera e garantisce la presenza della Nato in numerosi quadranti. Dal Nord Africa al Medio Oriente, passando per il Mediterraneo orientale, a discapito di alleati quali la Francia e l’Italia.
È prevedibile che, per avere Ankara dalla propria parte, Washington abbia deciso di chiudere entrambi gli occhi in Libia. D’altronde, a Madrid i potenti non hanno per nulla affrontato il tema Mediterraneo, concentrandosi sull’Asia e sull’Artico. Ciò sta a significare il disinteresse americano per una zona non considerata strategicamente rilevante per il momento.
Il fatto che Draghi abbia incontrato Erdogan certifica altresì la convinzione che l’Italia non avrà la forza di contrastare la crescente influenza turca nel Mare Nostrum. Roma ha bisogno di Ankara: e se non puoi competere, allora cooperi.
Erdogan approfitterà sicuramente della sua ritrovata centralità nell’Alleanza Atlantica, traducendo tale influenza in un rafforzamento della sua politica estera iper-attiva, insidiando le deboli posizioni italiane (e francesi) nel Mediterraneo e nel Nord Africa, spegnendo (forse definitivamente?) i sogni di gloria di Roma di ritornare a contare qualcosa nel mare nostrum.
Redazione Radici