La partita di Erdogan in Afghanistan

La partita di Erdogan in Afghanistan

Di Donatello D’Andrea

Oltre Russia, Cina e Iran, c’è un altro Paese che ha mostrato interesse nei confronti della nuova situazione afghana. Si tratta della Turchia di Erdogan.

In queste settimane, prima del repentino abbandono dell’aeroporto di Kabul da parte degli eserciti europei, il Presidente turco stava negoziando con gli americani per assumere il controllo e la protezione dello scalo afghano una volta che le forze occidentali avessero terminato le operazioni. Ovviamente, con l’occupazione talebana dell’intero Paese, le trattative con Washington sono saltate perché non c’era più nulla da negoziare.

Ma questo episodio è soltanto la punta dell’iceberg dell’interesse turco. Quando era chiaro a tutti che la situazione sarebbe precipitata, Erdogan non ha perso tempo ha preso contatti con lo stato maggiore talebano, grazie anche alla mediazione di Pakistan e Qatar. Dal canto loro, i taliban sono stati ben disposti a intrattenere relazioni con Erdogan, aspettandosi da lui cooperazione e assistenza. D’altronde, non è un segreto che l’Afghanistan consideri la Turchia come “un grande fratello islamico”.

Le ragioni che spingono Erdogan ad interessarsi a un Paese così lontano sono diverse.

La prima è di politica interna. Il Presidente sta perdendo consensi, soprattutto nei confronti della maggioranza religiosa che lo sostiene. Questi spingono verso una dottrina filo-asiatica che lo allontanino dagli interessi occidentali per abbracciare le ragioni russe e cinesi. Anche per motivi storici e culturali.

La seconda è di matrice geopolitica e sfrutta la comune religione con il fine di aumentare la leadership turca nei confronti degli altri Paesi musulmani. La Turchia punta ad essere il “grande fratello islamico” non solo dell’Afghanistan ma di tutti gli altri Paesi islamici. Non si tratta di una missione semplice, soprattutto dopo 20 anni di “infedele” NATO.

La terza, invece, ci riguarda da vicino. Da tempo la buona stella turca sta perdendo la sua luce nei confronti degli americani ed europei. I rapporti ambigui con Russia e Cina disturbano Bruxelles e Washington e Biden non sembra poi così tenero come Trump. Ecco perché la Turchia, sfruttando i buoni uffici islamici, punta a rafforzare la sua posizione di mediatore tra i talebani e la NATO. Per recuperare credibilità.

Infine c’è la ragione economica. Proprio come la Cina, la Turchia vuole riempire il vuoto infrastrutturale lasciato dagli americani. Una partita difficile, visto lo strapotere cinese in questo campo, e che potrebbe costare caro ad Erdogan.

L’Afghanistan può essere, al contempo, un’opportunità e un rischio per le ambizioni della geopolitica turca. Un impegno di cotante dimensioni richiederebbe di distogliere l’attenzione dagli altri teatri in cui Erdogan è impegnato. Siria e Libia in primis.

Si capisce che di una situazione del genere, l’Italia dovrebbe approfittarne. Roma è chiamata in prima persona ad osservare e agire di conseguenza. Prima i francesi e poi i turchi hanno ridotto a marginale lo spazio di manovra italiano nel Nord Africa.

Mario Draghi, all’epoca del suo insediamento, aveva chiarito le direttrici in politica estera del suo governo: Libia, Europa e Stati Uniti. Sono passati diversi mesi ma della prima, ormai, non se ne parla più. L’opportunità, però, è troppo ghiotta per lasciarsela scappare e l’Italia ha bisogno di riaffermare la propria presenza nel Mediterraneo, pena la (definitiva) perdita dei suoi asset strategici.

Donatello D’Andrea

Redazione Radici

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