Intervista esclusiva. Da Benevento a Miami: il genio dell’oncologia che l’Italia ha lasciato partire

Intervista esclusiva. Da Benevento a Miami: il genio dell’oncologia che l’Italia ha lasciato partire

Intervista al prof.Antonio Iavarone 

Il Professor Antonio Iavarone rappresenta una delle eccellenze italiane più riconosciute a livello internazionale nel campo della ricerca oncologica.

Attualmente alla guida di uno dei più prestigiosi team di ricerca presso il Sylvester Cancer Center dell’University of Miami, Iavarone ha rivoluzionato la comprensione dei meccanismi molecolari alla base dei tumori cerebrali, con particolare riferimento al glioblastoma multiforme.

La sua scoperta della fusione genica FGFR3-TACC3, identificata oltre un decennio fa, ha aperto nuove frontiere nella terapia personalizzata del cancro, influenzando protocolli terapeutici in centri di eccellenza negli Stati Uniti e nel mondo. Il suo algoritmo di intelligenza artificiale “Sphinx” rappresenta oggi uno strumento all’avanguardia per l’identificazione di bersagli terapeutici personalizzati, posizionandolo tra i pionieri dell’oncologia di precisione.
Questa intervista ha messo in luce una realtà tanto amara quanto incontrovertibile: l’Italia continua a perdere le sue menti più brillanti, non per caso, ma per sistema. La testimonianza del Professor Iavarone non è solo la cronaca di un’emigrazione intellettuale, ma il ritratto impietoso di un Paese che ha trasformato l’eccellenza in un handicap e il merito in un optional.
Benevento, città natale del professore, incarna perfettamente il paradosso italiano: aver dato i natali a uno scienziato che oggi attira ricercatori da tutto il mondo, ma non essere mai riuscita a offrirgli le condizioni per esprimere il suo talento in patria. Il tentativo fallito di creare una Biobanca nel territorio sannita rappresenta il simbolo di un’Italia che parla di innovazione ma resta ancorata a logiche clientelari e provinciali.
La denuncia di Iavarone tocca il cuore del problema: mentre l’America investe miliardi in centri di ricerca multidisciplinari capaci di attrarre i migliori talenti mondiali, l’Italia taglia i fondi alla ricerca e perpetua un sistema autoreferenziale che premia l’appartenenza invece della competenza.
Il risultato? Uno scienziato che ogni giorno riceve curriculum da Cina, India e mezzo mondo, ma che non può fare altro che consigliare ai giovani ricercatori italiani di seguire le sue orme: andarsene. Non per tradire il proprio Paese, ma per non tradire se stessi e il proprio potenziale.
La vera tragedia non è la “fuga dei cervelli”, come la definisce impropriamente la retorica politica, ma l’incapacità strutturale di creare quella “circolazione dei cervelli” che trasformerebbe l’Italia in un magnete per l’eccellenza internazionale. Fino a quando continueremo a cullare il mito dell’autosufficienza intellettuale invece di competere nel mercato globale dei talenti, continueremo a leggere interviste come questa: voci di italiani eccellenti che, da lontano, ci spiegano perché hanno dovuto andar via per poter volare alto.
Al termine di questa conversazione, emerge un aspetto che spesso sfugge quando si parla di eccellenze scientifiche: la dimensione umana del genio. Incontrare il Professor Iavarone significa scoprire che dietro le pubblicazioni su riviste internazionali, i brevetti e gli algoritmi rivoluzionari, c’è un uomo che ha mantenuto intatta quella qualità sempre più rara nel mondo accademico: l’umiltà autentica.
La sintonia che si è creata fin dai primi minuti di intervista non è frutto del caso, ma della naturale predisposizione di chi, avendo raggiunto vette così elevate, non ha bisogno di ostentare la propria grandezza. Iavarone parla dei suoi successi con la stessa semplicità con cui un artigiano descrive il proprio lavoro, senza retorica, senza autocelebrazione, con quella genuina passione che tradisce il vero scienziato.
La sua disponibilità a “mettersi in gioco”, a rispondere senza filtri anche alle domande più scomode sulla realtà italiana, rivela una personalità che non teme il confronto perché sa di poter contare sulla solidità delle proprie competenze. Non si nasconde dietro formalismi accademici quando denuncia il nepotismo che lo ha costretto all’esilio, né si sottrae quando deve ammettere i fallimenti, come quello della Biobanca di Benevento.
Questa autenticità rappresenta forse la lezione più preziosa che emerge dall’incontro: l’eccellenza vera non ha bisogno di maschere. Chi ha davvero qualcosa da dire non teme di esporsi, di raccontarsi, di condividere anche le proprie vulnerabilità. L’umiltà, in questo caso, non è debolezza ma forza: quella di chi ha attraversato oceani geografici e intellettuali mantenendo salda la bussola dei propri valori.
In un’epoca di ego ipertrofici e narcisismi accademici, incontrare uno scienziato di levatura internazionale che conserva la capacità di stupirsi, di interrogarsi e di mettersi costantemente in discussione è un privilegio raro. Forse è proprio questa la differenza tra chi fugge dall’Italia per opportunismo e chi, come Iavarone, parte per necessità ma porta sempre con sé l’autenticità di quelle radici che nessun successo potrà mai cancellare.
I grandi, alla fine, si riconoscono proprio così: dalla naturalezza con cui sanno essere semplicemente se stessi.
L’ intervista 
1. Buonasera professore, benvenuto e grazie per aver accettato il mio invito. La scoperta della
fusione genica FGFR3-TACC3 ha cambiato la comprensione del glioblastoma multiforme. Può spiegare in che modo questa scoperta ha aperto la strada a terapie più personalizzate contro questo tumore così aggressivo?
Certamente. Questa fusione genica, FGFR3-TACC3 come la chiamiamo in inglese, è una bomba oncogenica, ovvero un’alterazione genetica presente in alcuni tumori che, quando si manifesta, causa lo sviluppo del tumore stesso. Il tumore diventa dipendente da questa fusione genica. Noi l’abbiamo scoperta circa 12 anni fa per la prima volta nel glioblastoma, ma soltanto nel 3% dei pazienti affetti da questo tipo di tumore. Ora sappiamo che utilizzando farmaci specifici che vanno a colpire questa fusione genica – che bersagliano la proteina prodotta da questa alterazione – possiamo ottenere benefici terapeutici significativi in questi pazienti.
Questo è esattamente quello che stiamo facendo ora all’University of Miami con un network che include molti centri degli Stati Uniti – circa dieci istituzioni, le maggiori del paese – che stanno trattando pazienti con glioblastoma portatori di questa fusione genica con farmaci che bloccano proprio la funzione di questa alterazione. Si tratta di uno degli esempi più chiari di come si possa realizzare la terapia personalizzata del cancro.
2. Professore, lei ha identificato proteine e meccanismi molecolari che trasformano cellule sane in cellule tumorali nel cervello. Quali ostacoli scientifici e tecnologici ritiene importanti da superare per tradurre queste scoperte in cure efficaci per i pazienti?
In alcuni casi, come per la fusione FGFR3-TACC3, il fatto di identificarla ci offre immediatamente una possibilità terapeutica, perché disponiamo di farmaci efficaci contro questa alterazione. Quindi, se è presente la fusione genica, possiamo somministrare la terapia specifica a quei pazienti. Il problema principale è identificarla, e questo purtroppo in Italia non viene fatto routinariamente, mentre in America è ormai prassi consolidata. Di conseguenza, anche quando questa fusione genica potrebbe essere presente, non viene riconosciuta e le possibilità terapeutiche vengono perse.
In altri casi, quando non esistono bersagli terapeutici così immediati come questa fusione genica, la situazione diventa più complessa e richiede studi molto più approfonditi per scoprire le opportunità di terapia personalizzata per ogni singolo paziente. È importante chiarire che, sebbene abbiamo scoperto questa fusione per la prima volta nei tumori cerebrali, successivamente è stata trovata praticamente in quasi tutti i tipi di tumore umano.
Riguardo ai viaggi della speranza dei pazienti che dall’Italia si recano in America, devo dire che questo fenomeno esiste ma presenta problemi complessi. Spesso questi viaggi non sono molto utili perché avvengono in fasi avanzate della malattia, quando è difficile entrare nei trial clinici sperimentali, che sono il veicolo attraverso cui si devono somministrare queste terapie personalizzate. Piuttosto che intraprendere viaggi della speranza, che rappresentano una condizione estremamente incerta, dovrebbero esistere strutture valide sul territorio nazionale che forniscano queste opportunità terapeutiche direttamente ai pazienti.
3. Professore, lei ha parlato dell’intelligenza artificiale nella ricerca oncologica come di un potente alleato nella diagnosi e nel trattamento dei tumori cerebrali. Può descrivere come algoritmi come quello sviluppato dal suo team, Sphinx, riescano a identificare nuovi bersagli terapeutici?
L’intelligenza artificiale è un termine che indica tutte le opportunità computazionali di analisi dei dati che generiamo continuamente dai tumori e dai pazienti, dati che possono aiutarci a identificare possibili terapie personalizzate. Esistono moltissimi tipi di analisi che possiamo condurre: analisi del DNA, analisi dell’RNA per comprendere come funzionano i geni quando sono alterati nei pazienti, e analisi delle proteine.
Esiste un settore completamente nuovo nel campo della medicina personalizzata chiamato proteomica, che consiste nell’analizzare in ogni singolo tumore l’attività di tutte le proteine presenti. Queste sono tecnologie molto avanzate che, purtroppo, in Italia non vengono mai utilizzate. Tuttavia, analizzando tutte le proteine del tumore attraverso l’intelligenza artificiale e il nostro algoritmo Sphinx, possiamo identificare quelle che chiamiamo chinasi – enzimi che possono essere bersagliati da farmaci, proprio come avviene per la fusione genica, che alla fine produce una proteina che può essere colpita da un farmaco specifico.
Quando questi bersagli ovvi e facilmente identificabili non esistono, dobbiamo utilizzare tecnologie più avanzate, come la proteomica, per identificare altri tipi di bersagli. L’algoritmo Sphinx è stato sviluppato proprio per identificare questi bersagli in ciascun paziente che studiamo. Se abbiamo i dati, possiamo sempre identificare possibili opportunità terapeutiche. Il problema è che spesso i dati non sono disponibili.
4. Passiamo a domande più sul percorso personale. Lei e sua moglie Anna avete denunciato il nepotismo che vi ha ostacolato in Italia, costringendovi a emigrare. In che modo questa esperienza ha influenzato il vostro modo di fare ricerca e la vostra visione sull’organizzazione della ricerca scientifica?
Siamo partiti dall’Italia negli anni 2000-2001, quindi ormai è preistoria. Da allora purtroppo non è cambiato nulla, anzi, se qualcosa è cambiato, è peggiorato rispetto a quello che denunciavamo allora. Questa esperienza ci ha influenzato dandoci maggiore determinazione nel portare avanti il lavoro che avevamo iniziato all’Università Cattolica di Roma, dove lavoravamo a quel tempo, e che abbiamo continuato a sviluppare in maniera molto più innovativa nel corso degli anni.
Quello che è accaduto è che negli ultimi vent’anni le tecnologie a nostra disposizione sono cambiate enormemente, si sono rivoluzionate. Oggi possiamo fare cose che prima erano assolutamente impossibili, e quindi cerchiamo di condurre la ricerca più all’avanguardia possibile, utilizzando tutte le nuove tecnologie disponibili, comprese tecnologie mai applicate prima, per risolvere problemi legati a tumori che attualmente non possono essere curati. Il nostro obiettivo è provare a dare risposte terapeutiche a tumori difficili per i quali oggi non esistono cure.
5. Dopo oltre vent’anni negli Stati Uniti, quali elementi pensate siano essenziali per creare un ambiente di ricerca competitivo e stimolante in Italia, soprattutto nel settore oncologico?
Il fattore numero uno è realizzare strutture ambiziose dal punto di vista organizzativo e finanziario, che fin dall’inizio si riferiscano alla comunità internazionale dei migliori scienziati del mondo. Il parametro per valutare il successo di qualunque iniziativa è verificare se diventa un polo di attrazione per i migliori scienziati mondiali – persone che non necessariamente provengono dal territorio locale, che sia Benevento, Milano o Bergamo.
Si tratta di realizzare strutture molto ben finanziate e organizzate che offrano le migliori opportunità possibili ai migliori scienziati del mondo. Questi scienziati dovrebbero voler lavorare in questi centri, indipendentemente dalla loro provenienza, perché sanno che lì possono esprimere al meglio le loro capacità.
Io lavoro a Miami, all’University of Miami, al Sylvester Cancer Center, perché so che è un centro in grande espansione, con grandi opportunità finanziarie e grandi ambizioni nell’attrarre i migliori scienziati. I migliori medici e scienziati vogliono lavorare dove ci sono i migliori colleghi. Sono lì perché posso interagire con persone molto valide e possiamo fare team science.
La ricerca oggi, così come la cura del cancro – le due cose sono sempre associate – non si fa da soli, ma con team multidisciplinari che includono fisici, matematici, biologi, clinici, radioterapisti: competenze multiple di persone che lavorano insieme per ottenere risultati ambiziosi. Questo tipo di iniziative in Italia non sono mai state realizzate, iniziative che fossero fin dall’inizio svincolate dalle realtà clientelari del sistema italiano. Il sistema italiano è purtroppo ripiegato su se stesso, con regole che valgono solo in Italia ma non nel resto del mondo, e quindi non riesce ad attrarre i migliori scienziati.
6. Lei avrebbe voluto contribuire alla creazione di progetti innovativi come la Biobanca di Benevento…
Si ,certo ma  abbiamo provato inutilmente. Non siamo riusciti a realizzare nulla a Benevento .È incredibile, davvero incredibile.
7. Professore, quali consigli darebbe ai giovani ricercatori italiani che si affacciano al mondo della ricerca traslazionale oncologica?
Consiglio di andare all’estero, nei migliori centri, che devono essere identificati in base alle preferenze e agli obiettivi di ricerca. Ricevo praticamente ogni giorno decine di curriculum di persone che vogliono lavorare con noi – spesso arrivano dalla Cina, dall’India, da tutti i paesi del mondo. Naturalmente cerchiamo di essere selettivi, scegliendo le persone in base al loro curriculum e alle possibilità che hanno di lavorare bene nel nostro team.
Chi vuole formarsi ed eccellere nel mondo della ricerca sul cancro a livello internazionale deve andare in un grande centro di ricerca, soprattutto in un grande gruppo di ricerca. I centri li fanno le persone, quindi non conta molto il nome del centro quanto le persone che ci lavorano. Le persone vengono da me, non vengono al Sylvester Cancer Center in generale – fisicamente arrivano al centro, ma scelgono di lavorare nel nostro team specifico.
Chi vuole fare davvero la ricerca migliore possibile deve essere capace di identificare i gruppi internazionali migliori e approcciarli per andare a lavorare lì per un periodo serio – non settimane o mesi, ma anni.
8. Professore, spesso ha manifestato critiche severe verso la sanità italiana. Dal suo punto di vista, quali sono le cause principali che hanno portato il sistema sanitario nazionale a uno stato così critico, soprattutto in ambito oncologico?
Innanzitutto bisogna distinguere il sistema sanitario del sud Italia da quello del nord, perché stiamo parlando di realtà completamente diverse. Io sono di Benevento e conosco molto bene la realtà davvero problematica della sanità nel sud Italia.
Nel Meridione non esistono strutture valide per la cura dei tumori difficili, quelli per i quali non esistono terapie standardizzate. Questo tipo di tumori richiede analisi approfondite e i pazienti dovrebbero essere indirizzati verso trial clinici sperimentali, che nel sud Italia praticamente non esistono. Il trattamento che questi pazienti ricevono è subottimale, inadeguato.
Quando questi pazienti mi contattano, cerco – il più delle volte senza riuscirci – di indirizzarli verso i migliori centri del nord Italia o dell’Europa. Spesso non ci riesco perché è molto complicato per i pazienti spostarsi, oppure perché, anche quando riescono ad andare, non si riesce a farli entrare nei trial migliori per problemi logistici. Il paziente deve rimanere in quel luogo: non funziona come se si andasse da qualche parte, si prendesse una medicina miracolosa e si guarisse. È importante sottolinearlo.
L’assenza di strutture valide nel sud Italia rimane il motivo principale dell’inefficacia nel trattamento di questi pazienti.
9. Ma lei crede che sia principalmente un problema politico la criticità della sanità?
È sicuramente anche un problema politico, ma non solo. Il problema fondamentale è il disinteresse generalizzato per questo tipo di questioni. Non ho mai visto manifestazioni da parte di sindacati, partiti politici o enti di qualunque tipo per realizzare grandi centri di ricerca. Non mi risulta che le comunità abbiano preso coscienza della necessità di muoversi in questa direzione.
La mentalità dominante, soprattutto al sud, è l’idea di risolvere questi problemi a livello individuale. Quando capita un problema, si cerca di andare dall’amico, da quell’altro, di farsi raccomandare, ma non funziona così. Infatti, nemmeno le persone con capacità finanziarie riescono ad avere accesso alle migliori terapie possibili, proprio perché non esistono questi centri.
È un problema molto più radicato. Sicuramente i politici considerano questo tipo di interessi come l’ultimo dei loro problemi, e tagliano sempre i finanziamenti alla ricerca. Però è anche vero che c’è disinteresse da parte dei media, dell’élite intellettuale, dell’intera comunità. Non si considera questo un problema da affrontare socialmente, ma lo si vede come problema individuale, quando invece non lo è.
Quando ho provato più volte, anche per periodi prolungati, a realizzare questi centri di ricerca, mi sono ritrovato di fronte al sostanziale disinteresse. Il discorso era sempre che una cosa del genere poteva essere un veicolo pubblicitario per chi voleva investirsi in un’opera importante, ma non è mai successo. È sempre sembrato un interesse mio, ma non di altri. Non ci sono stati partner di nessun tipo, né politici né di altra natura.
10. L’ultima domanda: quali sono secondo lei gli errori maggiori che hanno spinto scienziati come lei a lasciare il Paese e che potrebbero essere evitati?
Credo che ce lo siamo già detto nelle risposte precedenti. L’unica cosa che vorrei aggiungere è che il concetto di “fuga dei cervelli” non è corretto. Quando mi ha chiesto cosa dovrebbe fare un giovane che vuole fare davvero ricerca, io ho risposto che deve andare all’estero. Si potrebbe dire che sto consigliando la fuga, ma non è così.
Quando si va in un grande centro di ricerca si acquisiscono competenze valide, si diventa più bravi, e poi si può tornare – ma solo se esistono quei centri di ricerca di cui parlavamo prima. Siccome non esistono, non si torna più. Non si crea quella circolazione dei cervelli che sarebbe auspicabile.
La definizione più corretta è “brain circulation” invece di “brain drain”, circolazione dei cervelli piuttosto che fuga. La fuga dei cervelli fa intendere qualcosa di negativo nel fatto che una persona vada a formarsi altrove, mentre questa è una cosa buona, da incoraggiare. Il problema è che poi questa persona non circola, o se circola, lo fa in altri paesi, ma non in Italia, perché l’Italia non è un polo di attrazione.
Il problema non è trattenere gli italiani – questa non è la cosa giusta, anzi, è la cosa più sbagliata possibile, perché ci teniamo gli italiani peggiori. Il problema è far venire in Italia i migliori scienziati del mondo, indipendentemente dalla nazionalità, italiani o stranieri. 

Antonio Peragine

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