Greta Thunberg: l’eroina dei selfie e delle utopie

“Quando l’idealismo diventa spettacolo, la realtà diventa solo un dettaglio fastidioso.” – Italo Nostromo 

Greta Thunberg, la giovane attivista diventata simbolo globale del cambiamento climatico, ha deciso di ampliare il suo repertorio: dal clima alla geopolitica, dal palco delle manifestazioni alle flottiglie verso Gaza. Per chi la osserva con occhio critico, il passaggio non è solo curioso: è un capolavoro di marketing personale, un mix di coraggio, ingenuità e spettacolarizzazione che trasforma ogni gesto in un evento mediatico globale.

Il primo colpo d’occhio è la coerenza ideologica: o meglio, la sua sorprendente assenza. Dalla bandiera verde dell’ambiente a quella palestinese, Greta ci dimostra che un colore in più o in meno non cambia nulla, basta che il microfono sia acceso. È come se avessimo assistito a un passaggio di costume sul palcoscenico mondiale: il pubblico applaude, i media immortalano, e lei sorride, perfetta come sempre.

Dopo essere stata arrestata ed espulsa da Israele nel primo tentativo, la giovane svedese non si perde d’animo. Torna sul mare a bordo di una nuova imbarcazione, pronta a “porre fine all’assedio di Gaza” e “aprire corridoi umanitari”. Traduzione pratica: una missione simbolica, più adatta a un reportage fotografico che a un cambiamento reale sul terreno.

Qui entra in scena il secondo elemento chiave: la spettacolarizzazione dell’attivismo. La flotilla non è un’operazione umanitaria tradizionale: è un evento globale con attori, cantanti e politici europei pronti a fare da contorno. Greta diventa così non solo attivista, ma showgirl internazionale della solidarietà. E mentre il mondo applaude, la realtà geopolitica resta fuori scena, come il cameraman dimenticato sul ponte della nave.

Non è questione di cattiveria: il problema è il disallineamento tra intenzioni e risultati possibili. Israele è uno stato moderno e militarmente organizzato. Una flottiglia di piccoli scafi civili non cambierà le politiche di uno stato sovrano. Ma questo non importa, perché nel teatrino dell’idealismo globale, l’apparenza vale più della sostanza. La foto della giovane svedese al timone è più efficace di qualsiasi trattativa diplomatica.

Ecco il terzo elemento: la strumentalizzazione dei conflitti complessi. La questione israelo-palestinese non è un problema da slogan su Instagram. Presentarla come un semplice schema oppressore-oppressi è riduttivo, superficiale e, diciamolo, un po’ comico se osservato dall’esterno. Ma il comico è ciò che funziona sui social: più è semplificato, più è condivisibile, più diventa virale.

La narrativa di Greta è chiara: “noi arriviamo, portiamo aiuti, cambiamo il mondo”. Peccato che la logica internazionale non funzioni così. Ma chi se ne importa? Il mondo guarda le foto, non le trattative. E Greta, con il suo sorriso determinato, diventa il simbolo perfetto di un idealismo spettacolare, dove il risultato pratico è un dettaglio trascurabile.

Un quarto elemento degno di nota è il ruolo dei media e del seguito di star. Susan Sarandon, Mark Ruffalo, Alessandro Gassman e Fiorella Mannoia salgono a bordo, creando un parterre da red carpet. Il messaggio è chiaro: se Greta dice che c’è un problema, allora è vero. Peccato che la verità non dipenda dagli hashtag o dai selfie. La giovane svedese diventa così un brand internazionale, più che un’attivista concreta.

E qui arriviamo al paradosso più evidente: Greta Thunberg è determinata, coraggiosa e motivata, ma completamente scollegata dalla realtà. Il suo approccio è quello dell’eroina romantica, pronta a sfidare il mare e lo stato sovrano con la stessa sicurezza con cui affrontava i cambiamenti climatici due anni fa. La realtà? La sua flottiglia è destinata a fare notizia, non politica.

La coerenza del personaggio diventa un optional: cambiare causa è flessibile, cambiare motivazione è ammirevole, cambiare bandiera è un dettaglio estetico. L’importante è che la storia appaia coerente nella narrativa pubblica, non nei fatti concreti. È opportunismo mediatico mascherato da coraggio idealista.

Ma non finisce qui. La giovane svedese ci insegna anche come ridurre la complessità a slogan. Invece di analizzare, comprendere, pianificare, basta dire “assedio illegale” o “corridoio umanitario” e il gioco è fatto. La complessità geopolitica diventa scenografia, i conflitti internazionali diventano teatro, e Greta è la regina incontrastata del palco globale.

Il quinto punto critico riguarda l’impatto educativo. I follower vedono coraggio, passione, determinazione. Ma cosa imparano realmente? Che per cambiare il mondo basta apparire coraggiosi e postare foto virali? Che i conflitti si risolvono con la teatralità e non con la competenza? La risposta è purtroppo sì, e questo è il nodo della critica più dura: Greta Thunberg è il simbolo di un idealismo spettacolare e autoreferenziale.

E mentre il mondo applaude, mentre i media celebrano, la realtà continua a muoversi senza di lei. Israele non cambia politica, Gaza non si apre a corridoi umanitari improvvisati, e la giovane svedese torna a casa con il titolo di eroina globale, la copertina dei giornali e i selfie dei VIP. Il tutto senza alcun impatto concreto.

In conclusione, Greta Thunberg è l’emblema dell’attivismo globale trasformato in spettacolo. Ha coraggio, ha passione, ma manca di strumenti concreti e di comprensione profonda. La flottiglia verso Gaza è un evento mediatico, utile per i titoli, le foto e i like, ma probabilmente inutile per chi davvero soffre.

Se c’è una lezione da trarre dalla sua parabola, è semplice: l’idealismo senza radici nella realtà è vanità, il coraggio senza strategia è spettacolo, e la notorietà senza competenza rischia di diventare più dannosa che utile. Greta Thunberg ci ricorda che cambiare il mondo richiede più conoscenza, più preparazione e meno foto. E forse, a volte, meno utopie a bordo di una barca.

 Carlo di Stanislao