Nessuno Vuole Fare Business in Italia: E Come Dargli Torto?

Fare impresa in Italia? Un atto di eroismo. Anzi, di incoscienza.
Nel 2025, aprire un’attività nel Belpaese è come decidere volontariamente di scalare l’Everest in infradito.
E chi può, se ne va. O non ci prova nemmeno.
Ma cosa rende questo Paese così tossico per chi ha voglia di costruire, investire, rischiare?
Spoiler: non è (solo) la burocrazia.
Il labirinto normativo: lo sport nazionale è il rimpallo
Cominciamo dal grande classico: la burocrazia.
Un imprenditore medio in Italia passa più tempo tra faldoni, dichiarazioni, bolli e permessi che a occuparsi del proprio core business.
Serve un permesso per aprire, uno per ristrutturare, uno per esporre un’insegna luminosa e uno per assumere lo stagista del cugino.
E ogni sportello ti rimanda a un altro, in una danza macabra di responsabilità scaricate.
La digitalizzazione? Spesso è solo cartaccia scansionata.
Gli “sportelli unici” sono tanti, e mai d’accordo tra loro.
Il risultato? Tempi biblici, costi folli e frustrazione assicurata.
Tassazione: la versione economica del waterboarding
Non basta sopravvivere al labirinto burocratico. Devi anche farti strozzare dal fisco.
L’Italia è tra i Paesi europei con la più alta pressione fiscale effettiva sulle imprese.
Tra imposte sul reddito, contributi, Irap e compagnia cantante, il messaggio è chiaro: se provi a guadagnare, vieni punito.
E parliamo di piccole e medie imprese, non di multinazionali con commercialisti che parlano in codice fiscale.
A loro, spesso, conviene evadere o delocalizzare. E molti lo fanno, con l’entusiasmo con cui si prenota un volo di sola andata per la libertà.
Zero incentivi reali, mille bandi inutili
Chi pensa che “ci siano i fondi europei” vive ancora nelle favole.
I bandi sono un campo minato di clausole, scadenze, incastri burocratici e rendicontazioni da psicanalisi.
Per accedervi servono consulenti specializzati, mesi di lavoro, e la grazia divina.
Il tutto per vedersi spesso rifiutare il finanziamento per un cavillo.
Intanto, le startup innovative vanno a Londra, Berlino o Barcellona.
A proposito: mai notato come le città estere accolgano le idee con infrastrutture, semplificazioni e un ecosistema fertile?
In Italia, invece, ti dicono “torna quando hai 3 bilanci, 12 fideiussioni e l’approvazione del Santo Ufficio”.
L’equazione impazzita: più rischio, meno garanzie
Fare impresa è, ovunque, un rischio.
Ma in Italia è un salto nel vuoto senza rete.
Se fallisci, vieni marchiato a fuoco come incapace o truffatore.
Nessuna cultura del “fallimento come lezione”, nessuna seconda occasione. Solo porte chiuse e banche che ti voltano le spalle.
E poi ci meravigliamo se i giovani preferiscono fare l’influencer, il rider o il consulente da remoto per una startup canadese?
Le responsabilità? Di tutti. E di nessuno.
Politici che parlano di “rilancio del made in Italy” mentre approvano leggi confuse e contraddittorie.
Sindacati fossilizzati su modelli anni ‘70.
Enti locali che ostacolano invece di agevolare.
E un sistema giuridico che ti processa per un vizio di forma… dieci anni dopo l’avvio della causa.
Il risultato è un deserto imprenditoriale dove solo i più tenaci (o i più folli) resistono.
E chi ce la fa, spesso lo fa non grazie al sistema, ma nonostante il sistema.
Morale della favola: chi ha idee le realizza altrove
Il paradosso è che gli italiani sono tra i popoli più creativi al mondo.
Ma anziché valorizzarli, li esasperiamo.
Così, chi ha un’idea brillante, un sogno da realizzare o anche solo la voglia di rimboccarsi le maniche, prende il primo volo.
Non per vacanza, ma per trovare un Paese che non lo tratti da criminale per voler lavorare.
E a noi restano le statistiche sulla disoccupazione giovanile, le serrande abbassate e i salotti televisivi dove ci si chiede, con aria stupita: “Perché l’Italia non cresce?”.
E tu, se avessi un’idea geniale e i mezzi per realizzarla… la faresti nascere in Italia o prenderesti il primo volo?