Il ritorno degli Emigrati d’estate – Quando le radici tornano a casa

Il ritorno degli Emigrati d’estate – Quando le radici tornano a casa

Ogni estate, puntuali come un orologio svizzero con il cuore tricolore, tornano.
Non quelli dei reality, non i cantanti in cerca di rilancio, ma gli emigrati: quelli veri, con le mani callose di nostalgia e le valigie piene di parmigiano sottovuoto.
Tornano con accenti contaminati, figli che parlano più inglese che dialetto e occhi che brillano appena intravedono il cartello del paese.

Non è solo turismo, è pellegrinaggio.
È rito.
È una forma di resistenza emotiva in un’Italia che cambia faccia ogni giorno, ma che in quei paesi dimenticati resta sempre la stessa: con la piazza, il bar, le chiacchiere in dialetto e i vecchietti seduti come sentinelle del tempo.
A Ferragosto, i borghi esplodono di vita come se il tempo si fosse fermato.
I nomi sulle cassette della posta, per una settimana, tornano ad avere un volto.
La casa dei nonni si riempie di risate, e persino il parroco ringiovanisce quando vede i “figli del paese” occupare i banchi della chiesa.

È curioso come chi se n’è andato spesso abbia una visione più romantica del proprio paese rispetto a chi c’è rimasto.
Gli emigrati lo idealizzano, lo raccontano, lo proteggono.
Chi è rimasto, invece, magari si lamenta, si stanca, si arrabbia.
Ma quando si rivedono, tra una fetta di anguria e una processione sotto il sole cocente, le lamentele lasciano spazio ai racconti.
E per qualche giorno, tutti sono dalla stessa parte: quella del ricordo.

Ma attenzione: dietro l’idillio da cartolina ci sono anche le contraddizioni.
Perché molti tornano per nostalgia, ma non ci vivrebbero mai più.
Perché amano l’Italia… ma solo a piccole dosi.
Perché il paese d’origine è bello da guardare, ma troppo stretto da abitare.
E allora si crea questo paradosso affascinante: un’Italia ideale vissuta a distanza, che esiste solo nel ritorno estivo, come una cartolina animata.

Eppure, questo ritorno è vitale.
È un’iniezione di senso per territori svuotati d’inverno.
È linfa.
È identità che si riafferma, anche solo per due settimane.
È il ricordo che dice: “Siamo ancora qui. E ci saremo anche l’anno prossimo”.

Ma voi, che partite ogni anno per poi tornare col cuore gonfio e la valigia piena di tradizioni, vi siete mai chiesti: tornate davvero… o non siete mai andati via del tutto?

Vera Tagliente

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