Italiani in fuga (di cervelli). Ma le radici? Quelle non si esportano.

Nel 2025 l’emigrazione italiana non è più una parentesi, ma una certezza. I numeri parlano chiaro, ma il vero problema è ciò che lasciamo (e dimentichiamo) dietro.
Un tempo si partiva con la valigia di cartone, oggi con il trolley rigido e un profilo LinkedIn aggiornato.
Cambiano le modalità, ma non la sostanza: l’Italia continua a perdere pezzi.
Secondo gli ultimi dati dell’AIRE, al 2022 risultavano quasi 6 milioni gli italiani iscritti all’estero – il 9,88% della popolazione.
E anche se i numeri aggiornati al 2025 non sono ancora ufficiali, il trend non lascia spazio a dubbi: l’esodo continua.
Non parliamo più solo di operai in cerca di fortuna, ma di giovani laureati, professionisti, ricercatori.
E no, non è il solito piagnisteo patriottico.
È una fotografia impietosa di un Paese che non sa trattenere i suoi talenti e non sa nemmeno salutarli come si deve.
Li lascia partire in silenzio, come se fossero una statistica scomoda.
Ma la vera domanda è un’altra: cosa succede al legame con l’Italia?
Perché una cosa è cercare opportunità altrove, un’altra è recidere le radici.
Troppi italiani all’estero – vuoi per disillusione, vuoi per praticità – si dissolvono nella cultura che li ospita come zucchero nel caffè.
Dimenticano la lingua, la storia, il senso critico che li ha formati. E così diventano “cittadini del mondo”… ma orfani di un’identità.
Mantenere vive le radici non significa restare ancorati al passato, ma portarsi dietro la capacità tutta italiana di osservare, criticare, creare.
Significa non trasformarsi in souvenir umani, né ostentare un patriottismo da cartolina solo quando gioca la Nazionale.
Serve un nuovo patto culturale tra chi resta e chi parte. Più reti, più dialogo, più orgoglio consapevole.
Perché un italiano che emigra senza spezzare il filo con la sua terra non è una perdita.
È un ponte.
Conclusione:
Fuggire è umano. Dimenticare chi siamo, no.
E tu? Sei emigrato o evaporato?