Il “Giorno della Nakba”

Nakba: ci sono parole che restano sospese. Non gridano. Non fanno rumore.
Ma hanno un peso. Nakba è una di queste. In arabo significa catastrofe. Ed è così che i palestinesi chiamano il 1948. L’anno in cui per alcuni fu una nascita, ma per più di 700.000 persone crollò tutto.
Il Giorno della Nakba
Il Giorno della Nakba e’ il 15 maggio, il giorno prima nacque Israele. Ma che tipo di nascita e’ quella che si costruisce sulla distruzione di qualcos’altro? Le famiglie palestinesi persero tutto, non solo le case ma la loro quotidianità fatta delle piccole cose. Di bambini che vanno a scuola, di genitori che lavorano i campi, di cucina e panni stesi, di attese e rapporti tra vicini. Improvvisamente piu’ nulla. Cacciati via, illusi nella speranza di tornare ma, a distanza di piu’ di 70 anni, non solo non sono tornati, oggi rischiano di essere spostati nuovamente.
🕊️ Displaced people
UNHCR
Come i rifugiati, gli sfollati interni, in inglese Internally Displaced People, sono civili costretti a fuggire da guerre o persecuzioni. A differenza dei rifugiati, però, non attraversano un confine internazionale riconosciuto. Restano quindi all’interno del Paese di origine.
Cosi migliaia di persone in tutto il mondo hanno manifestato in solidarietà con i palestinesi. Per cio’ che acadde nel 1948 e per cio’ che ancora oggi accade.
Le manifestazioni
Da Berlino a Londra, passando per Stoccolma in Europa ma anche in America e un po’ in tutto il mondo, migliaia di persone si sono radunate rispondendo agli appelli di diverse organizzazioni, per protestare contro gli attacchi israeliani a Gaza. I partecipanti hanno sventolato bandiere palestinesi, mostrato fotografie di bambini uccisi e portato striscioni con la scritta: “Fermiamo il genocidio in Palestina”.
In particolare a Londra, nel Regno Unito, i manifestanti marciando verso Downing Street, hanno intonato slogan come “Fermiamo il genocidio a Gaza”, “Liberiamo la Palestina” e “Israele è uno stato terrorista”. La denuncia del blocco israeliano della Striscia di Gaza, e l’accusa di aver deliberatamente affamato oltre due milioni di palestinesi, ha coronato la critica al governo britannico per il suo sostegno politico e militare a Israele, accusandolo di complicità nella crisi umanitaria. A Berlino, in Germania, la gente radunata a Potsdamer Platz ha mostrato cartelli con la scritta: “Il vostro silenzio è complicità” e “Non potete ucciderci tutti”. Ad Atene, in Grecia, una marcia di solidarietà ha visto i manifestanti marciare verso le ambasciate degli Stati Uniti e di Israele.
Displaced People
“Displaced people” cosi sono chiamate le persone allontanate dalle loro case (vedi box). Non si tratta di scegliere da che parte stare. Si tratta di vedere. Di ascoltare. Di non cancellare. Molti profughi vivevano a pochi chilometri dalle loro case. Ma non potevano rientrare. Quelle case avevano nuovi abitanti. Al loro posto, vennero costruite città nuove. I vecchi nomi sparirono dalle mappe. Ma non dalla memoria.
La Nakba non è solo un fatto storico. È una ferita aperta. E la responsabilità ricade su tutti noi, anche se non eravamo nati. Ricade sull’umanita’ intera, quando guardando tutto questo non ne scorge l’orrore o, peggio, si gira dall’altra parte come fosse normale, e col tempo ci diventa normale! Una verità come quella che un popolo ha diritto di avere una terra, non nega un’altra verità come quella che non si può cacciare via una fetta di popolazione per metterne un’altra.
Dal 1948 a Oggi, Nulla e’ Cambiato
Oggi ci sono ancora campi profughi pieni. Ci sono figli e nipoti di chi scappò, che ancora vivono senza cittadinanza. Così Raccontare la Nakba per i palestinesi significa essere visti, avere una voce, ricordare che quella nascita ha avuto un prezzo che viene pagato ancora oggi
Non si può costruire la pace se non si è disposti a vedere il dolore dell’altro. Anche quando fa male. Anche quando è scomodo. Non serve essere d’accordo su tutto. Occorre essere umani. E allora oggi, se diciamo Nakba, non è per dividere. È per unire i pezzi e costruire qualcosa che senza annientarne un’altra.
Bellissimo articolo. Questa storia andrebbe raccontata più spesso soprattutto nelle scuole perché, almeno ai miei tempi, la narrazione degli eventi non sempre era puntuale o addirittura era assente nei programmi scolastici perché ci si fermava sempre prima.
Sono d’accordo con cio’ che dici. La storia si fermava alla fine della seconda guerra mondiale. Eppure abbiamo studiato a cavallo tra gli anni ’70 e ’80….c’era ancora molto da dire!!
La Nakba ci ricorda che la memoria è un atto di giustizia. Non si può costruire il futuro ignorando il dolore del passato. Riconoscere la sofferenza altrui non divide, ma unisce. Solo vedendo l’altro, anche quando è scomodo, possiamo restare umani e coltivare una pace vera.
Ci ricorda anche che se decidiamo di essere una societa’ che mantiene una memoria attraverso le ricorrenze, dovremmo avere il buon gusto non fare figli e figliastri!