Oltre gli slogan: per un sistema antiviolenza che non escluda nessuna

Di Yuleisy Cruz Lezcano

In Italia ogni giorno una donna subisce violenza. Ogni tre giorni, una muore per mano di un uomo. Eppure, nonostante le campagne di sensibilizzazione, le iniziative istituzionali e l’impegno di molte realtà sul territorio, la rete di protezione per le vittime è ancora troppo fragile, frammentata e, soprattutto, escludente.

Esistono realtà che, silenziosamente, si prendono carico della complessità della violenza di genere, andando ben oltre la mera assistenza. Tra queste, le Unioni Donne in Italia (UDI) rappresentano un esempio di approccio integrato: ascolto, formazione, orientamento legale e psicologico, promozione dell’autonomia economica. Ma non sono le uniche. Tutto il mondo dell’associazionismo femminista, delle cooperative sociali, dei centri antiviolenza pubblici e privati, lavora per aiutare le donne a uscire dalla violenza. Tuttavia, troppo spesso questi interventi si scontrano con un sistema istituzionale che resta debole nella governance e incoerente nell’applicazione delle misure di protezione.

La rete d’aiuto poi, ha dei punti di debolezza, che io definirei come esclusioni sistemiche. Secondo la recente indagine ISTAT (2021–2022), una percentuale altissima, oltre al 65 percento delle Case Rifugio italiane escludono donne con problematiche di dipendenza o salute mentale, senza fissa dimora, vittime di tratta o in gravidanza. Categorie ritenute “troppo complesse”, che richiedono un impegno e una rete di servizi spesso non disponibili. Ma sono proprio queste donne le più esposte al rischio di recidiva e di ulteriore marginalità. Anche i figli delle donne accolte subiscono discriminazioni: limiti di età, genere e disabilità restringono ulteriormente la possibilità di accoglienza. Un sistema di protezione che lascia fuori le più vulnerabili è un sistema che fallisce.

Gli atti persecutori, le minacce, le violazioni di domicilio – i cosiddetti “reati sentinella” – dovrebbero essere segnali di allarme in grado di attivare immediatamente una rete di protezione. Invece, spesso vengono letti come episodi isolati, sottovalutati da operatori non formati o da magistrati che non colgono il rischio evolutivo della violenza. Questa mancanza di lettura complessa impedisce un intervento tempestivo, e trasforma le denunce in iter lunghi e inefficaci, lasciando le donne esposte ai propri aggressori.

La campagna “Non rimanere in silenzio”, promossa dall’Arma dei Carabinieri, ha avuto il merito di portare il tema della denuncia al centro del discorso pubblico. Ma come spesso accade, lo slogan rischia di rimanere fine a sé stesso se non viene sostenuto da un sistema capace di accogliere, proteggere e accompagnare la donna dopo la denuncia. Le stesse forze dell’ordine lamentano una mancanza di strumenti, formazione e continuità nei percorsi: la denuncia è un momento cruciale, ma se non si inserisce in una rete efficiente e protettiva, rischia di diventare inutile o, peggio, pericolosa per la vittima.

Cosa serve davvero? Senz’altro una rete integrata, fluida e professionale

Non bastano le buone pratiche. Serve una visione sistemica. Un tavolo operativo permanente, multisettoriale, che metta in rete servizi sociali, avvocatura, sanità, istruzione, forze dell’ordine, mondo del lavoro e dell’abitare. Serve formazione tecnica continua, ma anche una educazione culturale al rispetto, al consenso, alla parità, che parta dalle scuole e arrivi ai media. L’Italia ha strumenti legislativi importanti, come il Codice Rosso e i provvedimenti di allontanamento del maltrattante. Ma troppo spesso questi restano inapplicati, o arrivano tardi. La protezione effettiva della persona offesa è ancora un miraggio per molte donne.

Molti progetti di accoglienza protetta – come il Progetto OLAS, che ospita le donne in casa rifugio per 8 mesi – finiscono senza una reale prospettiva di reinserimento. Cosa succede dopo? Le donne rischiano di rientrare in circoli di violenza o emarginazione se non trovano lavoro, casa, supporto psicologico continuativo. Stessa sorte per le vittime di tratta sostenute dal progetto Oltre la Strada, attivo dal 1995: un progetto virtuoso, ma spesso ostacolato da fondi discontinui e da una mancanza di coordinamento con altri servizi, in particolare per le donne senza documenti o in condizione di irregolarità.

Chi ha usufruito delle Case delle Donne o dei centri antiviolenza pubblici racconta un’esperienza salvifica, ma anche un percorso a ostacoli: attese troppo lunghe, servizi psicologici insufficienti, difficoltà nel trovare lavoro e case indipendenti, soprattutto per chi ha figli. La riservatezza, l’anonimato, la sicurezza fisica sono garantiti solo in parte.

Il contrasto alla violenza non può essere delegato solo al volontariato, né ridotto a emergenza. Deve diventare una priorità sistemica, con investimenti stabili, personale formato, coordinamento operativo e nessuna esclusione. L’esempio delle UDI dimostra che un altro modello è possibile: fondato sull’ascolto, l’empowerment e l’integrazione tra saperi. Ma affinché questo modello sia la norma e non l’eccezione, servono scelte politiche coraggiose.

Perché proteggere tutte le donne, davvero tutte, non è un’opzione. È un dovere costituzionale.

 

Redazione

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