Sante barbuti, santi in abiti femminili e guerriere travestite

“Non si nasce donna: lo si diventa.” – Simone de Beauvoir
“Chiunque sia il padrone del linguaggio, sarà anche il padrone dei pensieri.” – George Orwell
San Girolamo vestito da donna. Una santa barbuta crocifissa. Una ragazza che si finge uomo per combattere alla corte di Francia. Non sono provocazioni contemporanee, né invenzioni della cultura moderna. Sono figure che affondano le radici in secoli di iconografia sacra, di tradizione religiosa, di memoria collettiva. L’immaginario visivo, teologico e narrativo ha sempre sfidato le frontiere del genere: le ha attraversate, disordinate, reinterpretate. E la storia ha accompagnato queste eccezioni con rispetto, a volte con timore, ma senza mai cedere all’indistinto.
Ci sono sempre stati uomini che hanno mostrato un lato femminile, donne che hanno agito con forza maschile. Ma in ogni caso, queste trasgressioni avevano un contesto, un senso, una tensione drammatica. Il maschile e il femminile non erano negati: erano attraversati, rielaborati, elevati. Giovanna d’Arco indossa l’armatura non per rifiutare la femminilità, ma per rispondere a una vocazione più alta. Santa Wilgefortis si fa crescere la barba per sottrarsi a un matrimonio imposto, non per dissolvere il suo genere, ma per preservarne la dignità. San Girolamo viene raffigurato in abiti femminei come simbolo di abbandono, di ascesi, di rottura con il potere maschile del mondo. E c’è anche la Papessa Giovanna, figura leggendaria che – celando il proprio corpo di donna – avrebbe osato sedere sul trono di Pietro, non per negare il genere, ma per sfidare il potere.
Tutte queste figure ambigue e straordinarie non cancellano la differenza tra i sessi. Al contrario, la rendono più viva, più profonda, più sacra. La tensione tra maschile e femminile è stata per secoli un campo di significato, un territorio spirituale in cui l’umanità cercava se stessa. Ma oggi questa tensione si è dissolta. Oggi la differenza non viene più attraversata: viene rimossa. Il maschile e il femminile non sono più poli da integrare, ma ostacoli da eliminare.
La fluidità, che un tempo era una forma di eccezione, un gesto eroico o mistico, è diventata una regola imposta. La cultura contemporanea esalta l’indistinto, il neutro, il mutevole come se fossero segni di libertà assoluta. Ma questa non è liberazione: è confusione. È perdita di senso. È cancellazione del simbolico.
Maschile e femminile oggi non sono più riconosciuti come dimensioni dell’anima, come archetipi, come orientamenti profondi dell’essere. Sono trattati come costruzioni sociali da smantellare, come convenzioni da superare, come fardelli da cui liberarsi. E così ci ritroviamo con uomini che non sanno più essere uomini senza sentirsi aggressori, e donne che si sentono obbligate a rinunciare alla loro specificità per conformarsi a un modello androgino, indifferenziato, asettico.
Ma l’anima umana non è neutra. Non è un foglio bianco su cui scrivere qualsiasi cosa. È fatta di polarità, di tensioni, di misteri. Senza il maschile e il femminile, l’identità si svuota. Senza distinzione, non c’è scelta. Senza forma, non c’è libertà.
Oggi ci si illude che la fluidità porti con sé più possibilità, più giustizia, più libertà. Ma è un’illusione. Perché nella pratica, la fluidità imposta cancella le radici, rifiuta la storia, disintegra il corpo come portatore di senso. Non siamo più incoraggiati a scoprire chi siamo nel confronto con l’altro, ma solo a disfarci di ogni definizione. È una libertà negativa, priva di direzione. Un orizzonte dove tutto è possibile ma nulla è vero.
E così finiamo per smarrire sia il femminile che il maschile. Il femminile, svuotato della sua forza simbolica, viene ridotto a un’estetica da influencer o a un genere da cambiare con un clic. Il maschile, privo di riconoscimento e rispetto, si rifugia in forme immature o violente. Non si tratta di rimpiangere i vecchi ruoli. Si tratta di chiedersi se, nel distruggere ogni forma, non stiamo anche perdendo la capacità di dare significato alle nostre vite.
Le figure del passato – Giovanna, Girolamo, Wilgefortis, la Papessa – non sono modelli da imitare, ma specchi. Ci ricordano che si può sfidare l’ordine senza distruggere il senso. Che si può abitare l’ambiguità senza negare la differenza. Che si può essere liberi solo se si conoscono i confini che si sta scegliendo di oltrepassare.
La vera sfida non è abolire le categorie, ma attraversarle. Non è vivere nel neutro, ma abitare l’umano, con tutta la sua complessità. E in questo, il maschile e il femminile – se riconosciuti, rispettati, coltivati – restano bussola e fondamento. Non prigioni, ma orizzonti. Non limiti, ma possibilità.
Perché essere liberi non significa essere senza forma. Significa, piuttosto, scegliere chi essere dentro una forma che abbia senso. E senza senso, non resta che il vuoto. Un vuoto che nessuna fluidità potrà mai colmare.