Non era odio, era inesperienza: la strana retorica della violenza sulle donne.

Ogni tanto ci illudiamo che le cose stiano cambiando. Poi arriva l’ennesima notizia, l’ennesimo titolo, l’ennesima donna ammazzata e capiamo che no, non è cambiato un bel niente. O forse sì: abbiamo affinato l’arte della giustificazione.
Siamo diventati esperti nel trovare parole nuove per non dire la verità. Coltellate? Macché, era inesperto. Ha usato il coltello come un bambino inesperto usa una penna: con goffaggine. Che tenero, quasi un cucciolo spaesato. Giulia Cecchettin ne ha ricevute settantacinque. Non una, non cinque: settantacinque. Ma era confuso, poverino. Emozionato. Forse non aveva dormito bene la notte. O forse non gli avevano spiegato a sufficienza che le persone non si colpiscono con un’arma quando ti dicono “basta”.
Siamo ridicoli. E lo siamo ogni volta che di fronte alla brutalità, alla violenza, all’orrore, ci rifugiamo nelle parole morbide. Quelle che non graffiano, che non sporcano, che non disturbano il quieto vivere. Perché una cosa è chiara: la priorità è sempre non turbare troppo. Non dire che è un femminicidio. Non dire che è cultura patriarcale. Non dire che forse, dico forse, c’è qualcosa di malato in un’intera società. No, meglio parlare di “tragedia”, che suona più poetico. O di “gesto folle”, che ci permette di archiviare tutto come un’anomalia. Un cortocircuito. Un malato isolato. E via col prossimo titolo.
Ci siamo abituati a leggere la morte di una donna come se fosse la cronaca di una partita di calcetto. L’azione, il colpo, la dinamica. Il motivo? Gelosia. Raptus. Delusione d’amore. Un altro grande classico: “non accettava la fine della relazione”. E allora? In quale manuale c’è scritto che l’amore, se finisce, giustifica un funerale? Che la libertà di una donna possa costare la vita, ma con attenuanti, perché in fondo “lui la amava troppo”? Che forma d’amore è questa, esattamente? Quella con la lama alla gola? O quella con la calcolatrice che conta le pugnalate?
Il punto è che non ci piace guardare in faccia il problema. Perché il problema non sono i mostri, gli psicopatici, i casi rari. Il problema è il terreno fertile che abbiamo coltivato per anni. È il ragazzino a cui insegniamo che una donna che dice no sta solo facendo la preziosa. È il padre che dice al figlio di “farsi rispettare”, come se il rispetto fosse una lotta di dominio. È la madre che dice alla figlia di “non provocare”, perché sai com’è, gli uomini si sa, sono così. È l’amica che dice “ma forse sei stata un po’ dura con lui”, come se fosse una colpa pretendere di essere lasciate in pace. È il giudice che chiede come era vestita. È la maestra che dice alle bambine di non parlare troppo forte. È il prete che predica perdono per l’assassino, perché “era un’anima fragile”.
E sì, c’è una differenza rispetto a venti, trent’anni fa. Oggi non possiamo più dire di non sapere. Le storie ci esplodono in faccia. Le vittime hanno nome, volto, voce. Le lacrime delle madri si sentono, anche se cambiamo canale. Non possiamo più fingere che la violenza sulle donne sia un’eccezione, perché è ovunque: nelle famiglie, nei posti di lavoro, per strada, online. E soprattutto nelle teste.
E allora di che cosa abbiamo bisogno? Di educazione, certo. Ma non della solita educazione da manuale, fatta di slogan e giornate commemorative. Abbiamo bisogno di educare alla libertà, al rispetto reale, non al paternalismo travestito da galanteria. Di educare i maschi a non credersi padroni del mondo – e delle donne. E le femmine a non sentirsi in colpa per vivere, per dire di no, per sparire da una relazione, per salvarsi. Ma questa educazione è scomoda. Perché implica mettersi in discussione, smontare tutto, riscrivere il copione, togliere il microfono a chi parla da decenni e non ha mai detto niente.
È scomodo dire che non bastano le leggi se poi chi le applica pensa che l’amore giustifichi la morte. È scomodo dire che ci sono uomini che odiano le donne – non perché sono pazzi, ma perché sono stati cresciuti così, viziati così, legittimati così. È scomodo dire che non basta il minuto di silenzio, non basta la panchina rossa, non basta la bandiera a mezz’asta. Che servono azioni, denunce ascoltate, misure vere, e soprattutto una cultura che cambi. Davvero.
Ma forse siamo ancora troppo occupati a non turbare la sensibilità dei carnefici. A trovare una motivazione tenera per ogni coltello. A dire “non era cattivo”, “era solo disperato”, “era goffo”, come se l’omicidio fosse una figuraccia. E nel frattempo, le donne continuano a morire. Una ogni tre giorni. Ma tranquilli, è solo un caso. O una tragica fatalità. Oppure, come direbbe qualcuno, un gesto d’amore andato storto.
Tutto molto normale. Tutto molto italiano
Serena Tortorici
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