Emilio Praga, il poeta della Scapigliatura

L’autore di oggi è un milanese figlio di industriali lombardi. Sembra parlare di oggi, invece dobbiamo catapultarci sempre nel secolo più fertile della letteratura: l’800.
Emilio Praga nasce nel 1839 nel sobborgo milanese di Gorla, un quartiere milanese famoso per la strage di 184 bambini a seguito di un bombardamento aereo alleato che colpì l’intero quartiere la mattina del 20 ottobre 1944, durante la Seconda guerra mondiale.
Ma il giovane Emilio vive cento anni addietro e muore nel dicembre del 1875
Fu un poeta, scrittore, pittore e librettista italiano, tra i principali esponenti della Scapigliatura. Grazie alla frequentazione e amicizia con Arrigo Boito.
Influenzato da Baudelaire, condusse una vita dissoluta e segnata da eccessi.
Le sue opere poetiche più celebri includono Tavolozza (1862), Penombre (1864) e Trasparenze (postuma, 1878), caratterizzate da un linguaggio innovativo e temi provocatori come il maledettismo e la critica alla società borghese.
Scrisse anche il romanzo Memorie del presbiterio e diversi libretti d’opera.
Morì in miseria, come spesso capita a chi vuol vivere di scrittura, a soli 36 anni, probabilmente per cirrosi epatica, dovuta forse alla dipendenza da alcol.
Per gustare la costruzione poetica un brano della poesia PAESAGGI
A CARLO MANCINI
….Vedi la selva delle quercie estatiche
drizzar nel buio le braccia ritorte,
funebre asilo di civette e d’upupe
in vago sonno assorte?
Le diresti Titani, a cui l’olimpica
ira inchiodava i piè possenti al suolo,
da mill’anni seguenti delle nuvole
e invidianti il volo.
Sai perché sì lontano i rami allungano
dal poderoso tronco?… Un dì, la plebe
che le giovani piante errar vedevano
per le feraci glebe,
intenta ai riti della bionda Cerere,
balzò alla picca, alla corazza, al brando,
e si accalcò dinnanzi a un frate pallido
che proclamava un bando.
Poi, fu un urlo terribile: e partirono.
Le alte cime mirâr nel polverìo
quei mille e mille all’oriente perdersi,
cantando preci a Dio.
Non più brillar di falci in mezzo all’alighe
né vociar di bifolchi, e comitive
tornanti a sera con a spalle i pargoli;
non più donne giulive,
inghirlandate di spiche e di mammole!…
Sol qualche vecchio errante, all’imbrunire,
sovra cui la tristezza, colle tenebre,
lenta, parea salire.
Muto il castello, deserto il tugurio!
Si sentìa che la vita in altra terra
battea, che tutte avea rapite l’anime
quella lontana guerra.
E fu allor che alle quercie malinconica
si fe’ la balda gioventù ferace:
però pensâr che, dopo qualche secolo,
dovea tornar la pace;
che popolata rivedrian di mandrie
la valle, e che il meriggio alla frescura
ricondurrebbe delle ombrìe balsamiche
una gente futura. …