Quell’estate del ’64 – Racconto

Quell’estate del ’64 – Racconto

La vecchia chiesa dei frati cappuccini, dedicata a San Lorenzo da Brindisi, era una costruzione bassa di tufo, senza alcun fregio.

Una particolarità di questo santo: appartenente ai frati minori cappuccini, è detto ‘da Brindisi’ perché è lì che studiò nel XVI° secolo, ma era veneziano e mori in Portogallo.
Solo una croce spiccava alta sul timpano della facciata. Adiacente al manufatto c’era un piccolo campetto utilizzato per le partitelle dei ragazzini. Quella domenica mattina dell’estate del 1964 la chiesa era gremita per le funzioni religiose. Seduto al primo banco notai un frate che in un angolo pregava sommessamente. Avevo da poco festeggiato gli undici anni e mi sarei  dovuto iscrivere alla prima media.
Ma ora avevo un’estate da godere.
Tornando al frate, la folta e lunga barba grigia incorniciava un volto austero con due occhi grandi e scuri che, pur mal celando un’antica sofferenza, mostravano un senso di pacatezza interiore. L’incontrò col religioso avvenne quella mattina.
La comunità gremiva ogni panca della chiesa, in quel quartiere alla periferia di Taranto, come ogni santo giorno di festa. Il frate suonava e cantava con voce intonata e sommessa. L’armonia si diffondeva e spandeva intorno una sensazione di autentica religiosità.
Era, come si dice nell’organizzazione religiosa, un frate laico. Un fratello che gode all’interno della comunità monastica degli stessi diritti dei chierici, ma svolge solo lavori manuali e profani, aiutando i sacerdoti nel compimento del ministero. Anche cuoco, uomo di fatica e pulizia.
Non potevo immaginare il trascorso del religioso, ma i capelli, in parte bianchi e il suo lento incedere, rendevano la sua figura un po’ aulica, misteriosa e affascinante.
Ero in prima fila. La funzione era finita. La chiesa s’era svuotata all’improvviso ed ero ancora lì, assorto. Talmente assente che non mi ero accorto del rumore strisciante dei sandali del frate e dello scampanellio dell’enorme rosario che ciondolava sulla tunica. Il frate dapprima ostentò curiosità. Poi mi chiese:
   «Non vai a casa?»
Mi scossi e voltandomi incotrai due grandi occhi scuri che mi fissavano amorevolmente
   «Si», risposi, ma poi chiesi: «Come ti chiami?»
   «Frate Egidio da Pietrapertosa», rispose il religioso.
 Mi alzai e uscendo dalla chiesa ripetei mentalmente quel nome così complesso, mentre il frate da dietro mi diceva a voce alta:
   «Torna a trovarmi, t’aspetto.»
 L’invito del frate misterioso restò impresso nella mia mente di ragazzino per diversi giorni e più scorrevano le ore e più veniva l’ansia di andare a trovarlo.
Un pomeriggio di un giorno feriale andai in chiesa. Era vuota e nell’attesa delle funzioni vespertine. Il frate era alle prese con l’organo con grande trasporto.
Tutto il corpo del religioso ondeggiava sullo strumento e stava con gli occhi chiusi, assorto, mentre con le dita schiacciava i tasti e non s’avvide che ero giunto alle sue spalle. Il religioso, con le mani e con i piedi, si dava un gran da fare sulla tastiera, a tal punto che la sua fronte era imperlata di sudore e s’avvertiva l’odore acre della barba bagnata.
Aveva appena terminato di suonare, sollevando le mani dalla tastiera, quando un suono acuto, cominciò a diffondersi. Il frate osservò se qualche tasto si fosse bloccato, si piegò per osservare se un pedale si fosse incastrato e solo allora, dalla piega del gomito, guardando in su, s’avvide che io stavo imitando con la voce la nota più alta dello strumento.
Il cappuccino fu impressionato dalla limpidezza di quella voce e, tornando sulla tastiera ricominciò a suonare qualche nota che subito imitai.
In quell’istante nacque un sodalizio fra noi  senza che ci fossero, da subito, grandi discorsi. Semplicemente musica, tanta musica. Nei giorni che seguirono il frate mi insegnò molti canti gregoriani e ben presto divenni il cantore ufficiale di tutte le più importanti funzioni religiose.
La piccola comunità rimase favorevolmente sorpresa nell’ascoltare quella vocina argentea ben impostata che accompagnava le loro preghiere. Solo che, non vedendomi, perché cantavo da dietro l’altare, s’era diffusa la curiosità su chi fosse quella vocina che ammaliava le funzioni.
Così una domenica mattina un gruppo d’anziane nonnine, dopo la messa, s’accostarono all’altare per vedermi. E quando videro quel bimbetto con gli occhiali e quel volto smarrito, mi abbracciarono facendomi delle feste.
Da quel momento divenni il beniamino della parrocchia stimato al pari dei padri religiosi per i quali ero diventato, nel frattempo, un piccolo confratello.
Quell’estate fu così intensa d’emozione che trascorse lenta, lenta. Passavo tutto il tempo, in quella chiesetta di periferia, nel quartiere Salinella di Taranto, dedicata a un dottore della Chiesa.
E fu come se una sola estate diventasse una full immersion di formazione e di apertura al mondo. Era l’incontro col genius loci che cambia la vita.
Trascorrevo là ogni ora del giorno, tranne piccole pause per correre a casa a mangiare, e poi subito ritornare ad aiutare il frate in tutte le faccende domestiche: rassettare la chiesa, la canonica e cantare, sempre cantare.
E qualche volta restavo a mangiare da loro. All’inizio i miei genitori non ostacolarono quel forte interesse religioso poiché, da vecchi e semplici cristiani, timorati di Dio, si sentivano rassicurati dal luogo che frequentava il figlio.
Io e il frate, avevamo creato un consorzio così pubblico, che era difficile incontrare l’uno, senza vedere l’altro. Ero la sua piccola ombra.
Questo era il mio primo incontro con il mondo degli adulti, esterno alla mia famiglia, e di cui il frate era diventata la figura più importante.
Avevo anche cominciato a cumulare anche una certa responsabilità per alcune questioni pratiche: da me dipendeva l’apertura e la chiusura della chiesa, il controllo dei bambini che usavano il piccolo campetto adiacente.
Ma la cosa più gratificante era il rapporto con fra’ Egidio che accompagnavo sempre in ogni circostanza.
Grazie a lui avevo cominciato a prendere consapevolezza delle sofferenze umane poiché lo seguivo nelle sue visite agli ammalati, soprattutto anziani, nella quotidiana questua di derrate alimentari, che il frate raccoglieva nei mercati per portarle a famiglie bisognose.
Un giorno il frate mi disse:
«Vieni, ti faccio conoscere una famiglia»
L’atteggiamento furtivo col quale il frate m’introdusse in quella casa mi sorprese. C’erano nove bambini e una signora con lo sguardo afflitto che, raccogliendo gli alimenti che recava il frate, pane, pasta, frutta e ortaggi, gli aveva preso le mani, stringendole e portandole vicino alla bocca, ringraziandolo solo con lo sguardo.
Il frate non si soffermò molto in quella casa, come aveva fatto in altre, quando gli avevo chiesto il motivo di tutta quella fretta, mi aveva risposto aggrottando la fronte imperlata di sudore:
   «Il padre di quella famiglia non ama i religiosi»
   «Perché non ci ama?» domandai.
   «E’ un comunista», fu la risposta lapidaria del francescano.
Nella mia mente di ragazzino quella parola, perfettamente sconosciuta, acquistò una rilevanza doppiamente negativa poiché a essa si legava l’amara condizione d’essere nel contempo: senza soldi e senza Dio.
Ma nelle sere di quella strordinaria estate, quando veramente la città si spegneva e s’accendeva un cielo di stelle, la mia attenzione ai temi religiosi e sociali acquistarono una dimensione del tutto nuova.
Fu una conversazione che s’avviò tra me e il frate che raccontava della sua esperienza di missionario in lontanissimi luoghi del continente africano.
Restavo affascinato al racconto di tante sofferenze, luoghi misteriosi, che il religioso descriveva con innumerevoli dettagli e tracimava di parole come un fiume in piena. Il frate appariva ispirato, col volto rivolto verso il cielo parlava lentamente e descriveva i villaggi, la mancanza di cibo, bambini che morivano di fame a migliaia, gli sforzi fatti dai francescani per costruire ospedali e centri d’assistenza.
Nella mia mente di bambino, quei luoghi prendevano forma di lande desolate nelle quali pareva non arrivasse la pietà divina.
E, con l’entusiasmo tipico dell’età, pensai che avrei potuto fare qualcosa anch’io per il terzo mondo. Così nacque nel mio animo una prima pulsione, una vera vocazione: diventare un frate.
Quando i miei  genitori seppero delle mie intenzioni, così come queste furono loro riferite dal frate, all’inizio non dissero nulla.
Dopo aprirono le ostilità e mi fu immediatamente proibito di uscire di casa.
Immaginate l’indicibile frustrazione: era come se nella mia vita si fosse spento l’interruttore centrale, avevo smarrito il senso, ero perso.
L’idea forte, maturata, in tante settimane vissute intensamente si era trasformata in una vera chiamata.
Il frate mandò qualcuno a prendere la pianola elettrica che mi aveva prestato perché imparassi a suonare.
Per lunghi giorni il pianto sconsolato fu l’unico mio compagno, nessun conflitto, nessuna porta sbattuta. Forse fu proprio questo comportamento che indusse i miei a prendere in considerazione le mie idee. Ma con una variante significativa che mi mise di fronte a una prova durissima.
Un pomeriggio mio padre, sottufficiale della Marina Militare m’accompagnò da un prete di sua conoscenza che aveva conosciuto durante la guerra, come cappellano militare.
Don Nebbiolo era il parroco di San Pio X, una parrocchia che si trovava, in un quartiere vicino, però per arrivarci bisognava attraversare la bidonville delle baracche Zaccheo che avevo visto da piccolino, nelle passeggiate con mia sorella Lucia.
Il tragitto, che feci con mio padre, fu breve e accompagnato dal silenzio. Giunti nella canonica mio padre entrò dentro l’ufficio del prete, io rimasi fuori. Gli adulti decidevano per me.
Dopo un po’ fui chiamato e mi trovai al cospetto dell’ex – cappellano.
Un   omone austero. Una folta chioma bianca incorniciava il viso paonazzo di un forte bevitore. Aveva un accento piemontese e quel cipiglio burbero che lo faceva assomigliare più a un ufficiale militare che a un prete. Ma fu gentile.
Si dichiarava contento della mia vocazione che egli non poteva che condividere, ma cominciò a prospettarmi gli aspetti negativi della vita francescana: l’estremo rigore dell’insegnamento, la distanza da casa, il fatto di dover dimenticare la famiglia, le esperienze terribili nelle missioni lontanissime, i numerosi frati che morivano di malattie e di stenti e persino ammazzati in quei luoghi disgraziati.
Le stesse cose raccontate dal Frate apparivano ora immagini apocalittiche che frullavano nella mia mente di bambino, assumendo l’aspetto di veri e propri incubi.
Poi mi prospettò anche gli aspetti pratici, il fatto di condurre una vita in povertà, piena di privazioni poteva, nel tempo, mettere a dura prova anche la fede più tenace.
Così mi offrì l’alternativa di un prete secolare, gli studi vicino a casa, la possibilità di avere subito una parrocchia da seguire, l’insegnamento della religione nelle scuole e, perbacco, lo stipendio che ogni persona deve avere.
Ero smarrito e confuso e in preda a uno sconvolgimento che non si riesce a descrivere. Era il primo compromesso della mia vita. Aveva capito solo che i miei genitori non volevano perdermi del tutto. Fu forse quest’amore a fare la differenza. E accettai.
Quella sera d’estate, all’ottavo piano del ‘palazzo degli americani’ di via Liguria angolo Viale Magna Grecia, la luna sembrava più vicina, in un cielo stellato che si poteva tagliare a fette.
In lontananza guardai la chiesa dei francescani e il mio piccolo volto fu attraversato da una lacrima.  L’estate successiva ero vestito da piccolo prete seminarista e andai nella chiesa dei francescani, ma ‘fratello’ Egidio non c’era più, era stato trasferito.
Uscendo dalla chiesa, il cielo si poteva toccare con le dita, una stella brillava di più e pensai a quel frate che aveva colmato di gioia la mia ancora breve vita, in una sola e semplice estate.

Roberto De Giorgi

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