Iran, bambini lavoratori e blackout

Iran, bambini lavoratori e blackout

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un’altra testimonianza sulla vita quotidiana in Iran. Per ovvie ragioni di sicurezza, il nome dell’autrice non compare. A questo link si può leggere il primo articolo.

Questa mattina dovevo andare all’Associazione per il Sostegno dei Bambini Lavoratori. In Iran, oggi, i “bambini lavoratori” sono considerati quelli che, fin da piccolissimi, intorno ai 4 o 5 anni, fino ai primi anni dell’adolescenza, circa 13 o 14 anni, lavorano agli angoli delle strade vendendo snack e fiori o pulendo i vetri delle automobili, nella speranza di guadagnare una piccola somma per sopravvivere.

Un mio amico, il cui padre è stato ucciso durante la guerra Iran-Iraq negli anni ’80, ora lavora come consulente nel campo della psicoanalisi e offre servizi di consulenza volontaria ai bambini lavoratori presso questa associazione. È stato lui a presentarmi come volontaria per insegnare lingue e arte.

Oggi è il giorno della mia introduzione ufficiale e devo presentare le mie competenze attraverso un curriculum corredato di certificazioni valide per superare il colloquio. Ero sveglia da dieci minuti, erano le 6 del mattino, e mi sono diretta verso il bagno per lavarmi e fare una doccia, ma…

Credo che oggi non sia il giorno migliore per iniziare, perché ancora una volta, l’elettricità della città si è interrotta senza preavviso e, dato che la pompa dell’acqua funziona con l’elettricità, nell’edificio non ci sono né luce né acqua.

Presa dalla rabbia, non avevo nemmeno voglia di imprecare. In Iran da alcuni mesi viviamo in una condizione di crisi che ricorda lo stato di guerra. Il governo interrompe l’acqua e l’elettricità e chiama questi black out “squilibrio energetico”.

Si vocifera che, a causa delle sanzioni e di quelle successive all’ingresso di Trump alla Casa Bianca, il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica stia utilizzando il sistema del mining per convertire la valuta nazionale in criptovalute e inviare fondi ai gruppi che sostiene (Hamas, Hezbollah, Houthi, Hashd al-Shaabi e altri alleati nella regione).

Di conseguenza, tutto il Paese è ufficialmente in stallo.

Quasi il 100% delle fabbriche e delle industrie è fermo per mancanza di energia, i lavoratori sono disoccupati e gli uffici, le banche e le scuole lavorano a giorni alterni. Le lezioni si tengono online, ma solo se studenti e insegnanti hanno contemporaneamente accesso all’elettricità e a Internet.

In questa calma apparente, ma da stato di guerra, non poter fare una doccia è il minimo dei problemi con cui si inizia la giornata, dunque cerco di non farne un dramma.

Così, brontolando, sono andata verso una tanica di 20 litri d’acqua di riserva per sciacquarmi il viso e svegliarmi un po’, poi ho scelto i vestiti e mi sono preparata per uscire.

Senza aver fatto colazione, senza essermi lavata, sono andata verso il parcheggio per prendere la macchina, ma mi sono ricordata che il cancello è elettrico. Un’altra sconfitta. Dovevo rinunciare a usare la mia auto.

In quanto cittadini iraniani, ormai da anni ci siamo abituati a questo stile di vita, fatto di disavventure quotidiane grandi e piccole. Viviamo in condizioni simili a una guerra, e dobbiamo avere sempre pronti piani B, C, D… fino alla Z.

Senza perdere altro tempo, ho preso il telefono dalla borsa e ho chiamato un taxi tramite l’app Snapp. (Fortunatamente il mio telefono aveva ancora il 20% di batteria).

Dopo circa un quarto d’ora, il taxi è arrivato. Erano circa le 7:15 del mattino, e con il traffico e la distanza speravo di arrivare a destinazione per le 9:00. Ho aperto la portiera, sono salita di corsa e ho salutato, dicendo al conducente: “Per favore, vada veloce, sono in ritardo!”.

Ignorando la mia fretta, mentre regolava lo specchietto retrovisore verso di me, l’autista ha detto con calma: “Signora, mi dispiace, ma non posso portarla. Deve scendere”.

Nella mia mente sono esplosi stupore, scenari e domande. Ho chiesto: “Sta scherzando?”.

Con tono dispiaciuto, l’autista ha risposto: “No, sorella, non sto scherzando. Non indossa il velo. Ieri, dopo due settimane di pratiche e multe, ho finalmente riavuto la mia macchina che mi era stata sequestrata dalla polizia perché una cliente precedente non aveva il velo. Mi hanno minacciato che, se accadesse di nuovo, mi sequestrerebbero l’auto per sempre. Ho famiglia, signora. Se non lavoro, non posso sfamare i miei figli. Non è colpa sua, ma non posso rischiare”.

La sua voce sembrava venire da lontano mentre mi diceva: “Sorella, fa freddo, metta il velo per risolvere la questione. Così io posso guadagnarmi da vivere e lei può andare ai suoi impegni”.

Non potevo arrabbiarmi con lui, né spiegargli che, in questo modo, non faceva altro che alimentare un regime che da 45 anni opprime il nostro Paese, rubando le sue risorse per finanziare guerre per procura, con il pretesto dell’ostilità verso Israele, ma le parole si accavallavano nella mia mente e non riuscivo a parlare.

Alla fine ho chiesto scusa all’autista e, con rabbia e tristezza e sono scesa dicendo che sarei andata a piedi. Sapevo benissimo che non avrei mai potuto percorrere i 40 chilometri che mi separavano dalla mia destinazione. Ero ferma, smarrita. Sembrava che il tempo si fosse fermato, che il mondo non girasse più.

Il taxi è ripartito, lasciandomi lì, mentre nella mia mente continuavano a passare immagini dei bambini lavoratori…(Pressenza)

Redazione Radici

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