Pace in medio oriente?

di Raffaele Gaggioli
Dopo più di due anni di conflitto, sembra che Israele e Hamas siano riusciti a raggiungere un accordo per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Nella notte del 17 gennaio il gabinetto di guerra israeliano, capitanato dl Primo Ministro Benjamin Netanyahu, ha infatti approvato la proposta presentata dagli Stati Uniti e dai suoi alleati regionali, in particolare il Qatar, per ottenere la liberazione degli ostaggi israeliani in cambio della temporanea fine del conflitto nell’enclave palestinese.
L’accordo siglato da Tel Aviv e Hamas prevede una prima fase di 42 giorni, durante la quale Hamas libererà 33 ostaggi, per lo più donne, bambini, anziani, malati e feriti civili, in cambio di 95 prigionieri palestinesi attualmente nelle carceri israeliane. La maggior parte di questi prigionieri sarebbero civili, ma secondo alcune indiscrezioni la lista includerebbe anche membri di Hamas, della Jihad islamica palestinese e del movimento islamista Fatah condannati all’ergastolo con l’accusa di omicidio e terrorismo.
Lo scambio dei prigionieri verrà preceduto dal ritiro delle truppe israeliane dalle aree densamente popolate di Gaza in modo da permettere il ritorno degli sfollati palestinesi nelle loro case, molte delle quali sono però state probabilmente già distrutte dai bombardamenti israeliani degli scorsi mesi. Allo stesso tempo, l’IDF rafforzerà le sue difese e i suoi controlli lungo il confine tra Israele e Gaza allo scopo di prevenire ulteriori attacchi o fughe dei palestinesi in territorio israeliano.
Non è ancora chiaro cosa succederà alla fine di questi 42 giorni. Gli Stati Uniti e il Qatar hanno infatti stabilito che i dettagli della fase due e tre di questo cessate il fuoco verranno stabiliti nel corso di questa prima tregua. Inoltre, i due Paesi istituiranno al Cairo una sala operativa congiunta per monitorare l’attuazione del cessate il fuoco tra Israele e Hamas e dell’accordo sullo scambio degli ostaggi.
Nonostante l’apparente ottimismo dei mediatori internazionali, ci sono però ancora numerosi fattori che potrebbero portare ad un fallimento di questi negoziati. Per cominciare, non si sa con certezza quanti ostaggi siano ancora in mano ad Hamas e quali siano le loro condizioni di salute. Si teme infatti che alcuni degli ostaggi siano stati ceduti da Hamas ad altri gruppi terroristici attivi al di fuori della Striscia di Gaza.
Rimane poi l’incognita dell’estrema destra israeliana. Nonostante più del 70% degli israeliani approvi il cessate il fuoco, Ben Gvir e gli altri membri dell’ultradestra messianica hanno votato contro l’approvazione dell’accordo con Hamas in modo da continuare la guerra nella Striscia di Gaza. Per questo motivo, i membri di questa fazione politica hanno minacciato di lasciare la coalizione governativa di Netanyahu a meno che l’accordo non venga cancellato.
Questo scenario causerebbe la fine dell’attuale governo israeliano e questo priverebbe Netanyahu della semi-immunità parlamentare che gli ha finora permesso di non essere processato per le varie accuse di corruzione ricevute negli ultimi anni. Per questo motivo, vi è il timore che l’attuale primo ministro israeliano possa fare marcia indietro per proteggere i suoi interessi politici.
Al di là del problema degli ostaggi, non è neppure chiaro cosa succederà nella Striscia di Gaza dopo che le truppe israeliane si saranno ritirate. Abu Mazen, presidente della regione palestinese della Cisgiordania, rivendica Gaza come parte del suo territorio, ma il governo israeliano sembra riluttante all’idea di affidare la regione all’impopolare presidente dell’Autorità Palestinese.
L’unica altra opzione è permettere ad Hamas di continuare a governare Gaza. Non solo questo rappresenterebbe un continuo pericolo per la sicurezza di Israele, ma renderebbe anche molto più difficile il processo di ricostruzione di Gaza. Secondo le Nazioni Unite, ci vorranno infatti almeno 14 anni di lavoro e più di 280 milioni di dollari per rimuovere le macerie e ricostruire gli edifici (soprattutto scuole e ospedali) distrutti dai bombardamenti israeliani.
Al di fuori dei confini israeliani, rimane poi l’incognita di come il cessate il fuoco influenzerà il resto del Medio Oriente e in particolare i gruppi affiliati con Hamas. Il gruppo terroristico palestinese può infatti rivendicare di aver costretto Tel Aviv a negoziare come se fosse stata per loro una vittoria, ma il conflitto ha anche devastato le sue risorse e quelle dei suoi alleati.
Yahya Sinwar , leader politico di Hamas e progettatore dell’attacco terroristico del 7 ottobre, è stato ucciso nel corso del conflitto assieme a gran parte del suo circolo interno e dei suoi soldati. Il gruppo si trova adesso a corto di uomini, mentre buona parte delle sue risorse sono state usate o distrutte nel corso del conflitto con Israele.
Il gruppo terroristico libanese di Hezbollah è in simili condizioni. Anche se Israele ha accettato di ritirare le sue truppe dal Libano lo scorso novembre, il conflitto con l’IDF ha provocato la morte di molti membri dell’organizzazione islamista.
Inoltre l’elezione del generale Joseph Aoun come nuovo presidente del Libano potrebbe indicare un generale indebolimento dell’influenza di Hezbollah nel Paese arabo a causa del conflitto con Israele, dato che il militare non ha mai nascosto la sua ostilità al gruppo fondamentalista.
L’indebolimento di questi due gruppi avrà probabilmente conseguenze anche per la politica estera ed interna della Repubblica Islamica d’Iran, dato che Teheran è da anni il loro principale sostenitore. Paradossalmente, il fragile cessate il fuoco tra Hamas ed Israele potrebbe spingere la teocrazia mediorientale ad adottare una politica estera ancora più aggressiva.
Raffaele Gaggioli
istockphoto